Leggere al tempo della peste La peste (Albert Camus, 1947)

Quando due mesi fa ci rinchiusero in casa, dapprima pensai: ci sono abituato, vedrò solo un po’ meno gente e leggerò più libri del solito. Ma il mio timore per il virus durò solo poche ore: il mio animo libertario, privato ingiustificatamente di libertà che ho sempre ritenuto inalienabili, da allora mantiene un sottofondo saturnino e riottoso, e un mélange di tristezza e frustrazione mi assale appena ripenso che oggi la legge è in mano agli sbirri. Paziento ancora un po’ prima di disobbedire: in fin dei conti sono tra i fortunati aspiranti untori che ha potuto cogliere asparagi dal proprio fazzoletto di terra (di cui non mi hanno privato, ancora).

Quello stato d’animo ha fatto sì che non avessi “testa” per leggere in genere, men che meno saggi. Avevo cominciato Sorvegliare e punire di Foucault, ma stavo già appendendo un cappio alla trave; mi ero buttato su qualcosa di più pop come A cosa serve la politica di Piero Angela ma la sua risposta riduttiva e assolutamente capitalistica mi deluse e imbarazzò; sto ancora leggiucchiando Terroni di Pino Aprile solo per riavere conferma che ancora una volta dal nord dettano legge per gettare ulteriormente nel baratro quelli del sud. Così da marzo ho letto solo narrativa: per “svagare”. E quale migliore svago che La peste di Camus? Tanto più che nel 2017 la Bompiani ne ha pubblicato una “nuova brillante traduzione” di Yasmina Mélaouah (io mi ritrovavo a casa cartacea la storica di Beniamino Dal Fabbro, più pedissequa ma anche meno scorrevole: oggi citerò la più recente).

Un medico di una città algerina trova un topo morto davanti casa; dopo qualche giorno i topi morti si trovano ovunque, e il portinaio che aveva rimosso il primo topo muore. Dopo qualche altro giorno cominciano a morire altre persone. Presto il medico si rende conto che è peste: i politici vorrebbero negarlo ma poi chiudono la città. La gente inizia a morire come i topi e viene seppellita in fosse comuni. Neanche il vaccino sembra avere effetto… – Questa, in breve, la trama ad uso dei miei frettolosi congiunti di Facebook. In questo romanzo (molto poco romanzesco in verità…) i politici non chiudono la gente a casa (a parte gli infetti), tuttavia blindano la città: e a quei tempi – erano gli anni quaranta – significava troncare con chi non abitava nella stessa città, senza neanche il palliativo delle videochiamate. Poco male: la gente può continuare e di fatto continua ad andare ai bar, ai ristoranti e anche al teatro e al cinema, nonché immancabilmente in chiesa dove c’è un prete che ammannisce facili prediche contro i peccatori.

A parte queste differenze di confinamento, le altre dinamiche sono quelle che abbiamo imparato a conoscere senza mediazione letteraria in queste settimane: i medici che allertano i politici, i politici che vogliono insabbiare tutto e che poi ex abrupto prendono misure drastiche (lasciando malcapitati stranieri dentro la città, lontani dalle loro famiglie), i contagi che continuano ad aumentare nonostante le misure prese, la burocrazia assurda con conteggio meticoloso dei contagiati e dei morti da parte di solerti funzionari, i funerali negati, l’antidoto che non funziona… Quello che in più questo libro ci mostra è la sofferenza della gente, gli effetti dell’esilio forzato, la disperazione e la frustrazione dei sopravvissuti. «I nostri concittadini, quelli almeno che più avevano sofferto nell’essere separati, si abituavano forse alla situazione? Non si tratta di questo. Sarebbe più esatto dire che tanto nel morale quanto nel fisico soffrivano di disincarnazione». Disincarnazione che negli annali italiani, così presi dall’elogio per il modello tutto nostrano di incarcerazione preventiva, non è pervenuta.

«Da questo punto di vista, erano davvero entrati nell’ordine della peste, tanto più efficace poiché più mediocre. Nessuno fra noi provava più grandi sentimenti. Ma tutti provavano sentimenti prevedibili. “È ora che finisca,” dicevano i nostri concittadini, perché in tempi di flagelli è normale desiderare la fine delle sofferenze collettive e perché in realtà desideravano davvero che finisse. Ma non era detto con l’ardore o l’aspro sentimento dell’inizio, bensì con quelle poche ragioni che per noi erano ancora chiare, e che erano povere. Al grande slancio indomito delle prime settimane era seguito un abbattimento che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazione, ma che era comunque una specie di temporaneo consenso. I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si suol dire, perché non c’era modo di fare altrimenti. Avevano ancora, certo, le sembianze della tragedia e della sofferenza, ma non ne sentivano più il morso». Io non avrei saputo dirlo meglio.

Ultima breve citazione che inquadra bene la schizofrenia nella quale anche noi ci ritroviamo adesso immersi: gli abitanti di Orano sono dilaniati da contraddizioni, «spinti verso gli altri dal bisogno profondo di calore umano, e tuttavia tenuti distanti dalla diffidenza che impedisce loro di lasciarsi andare. Lo sappiamo benissimo tutti che non possiamo fidarci del nostro vicino, il quale senza che ce ne accorgiamo può trasmetterci la peste e approfittare della nostra vulnerabilità per infettarci». La lotta che un tempo era di classe e poi era assurta contro la casta, adesso è finalmente civile: interna al corpo sociale, cioè. Divide et impera.

Proprio stamattina, mentre pensavo che non entrare in Facebook mi avrebbe preservato dall’odio sociale (compreso il mio!) che è la vera cifra di questi giorni, ricevo un’email semplice semplice da uno sconosciuto. «I compagni dicono che le misure del governo sono lesive della libertà e che c’è il pericolo di una svolta autoritaria… I compagni… dimenticano che prima di tutto viene la salute». Il primo impulso era quello di indirizzare il mittente verso la porta che sta sempre in fondo a destra; mi limiterò però a ricordare a questo grande falco che la salute non è fatta solo di mera sopravvivenza fisica; e che si può morire pure di fame, di isolamento e di depressione.

(Pubblicato nel numero 404 di Sicilia Libertaria).

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