Contro la “civiltà” Civiltà della distruzione. Teorie contro la civilizzazione

Dopo tante parole sulla felicità, e soprattutto sulle sue possibilità soggettive – ma gli psicologi, si sa, ragionano così – vediamo se è possibile individuare delle vie oggettive per giungere più facilmente alla realizzazione dell’individuo nella comunità in cui vive.

Civiltà della distruzione (Bepress 2012) è una piccola raccolta di articoli e saggi brevi – purtroppo curata assai male e zeppa di refusi – di vari autori anarchici ecologisti e primitivisti che in varia misura contestano la cosiddetta “civiltà” contemporanea, caratterizzata da Stati sempre più asfissianti, condizioni ambientali disastrate e un perverso senso sociale improntato all’autoritarismo, esercitato su masse ingenti in un mondo ormai sovrappopolato. Il problema, secondo Richard Heinberg, è dovuto all’abbandono di condizioni di vita primitive – in particolare quelle dei cacciatori-raccoglitori – a favore di una civilizzazione che, a fronte di dubbi vantaggi (perlopiù sotto forma di “comfort”), implica «divisione del lavoro, agricoltura, guerra organizzata, crescita della popolazione e stratificazione sociale». Questo primo articoletto è troppo breve per poterne trarre conseguenze (non si auspica direttamente il ritorno al Neolitico; ci si limita a mettere in evidenza gli effetti nefasti delle società di massa “organizzate” in imperi); il successivo, di Feral Faun, è più incisivo e parla di abolizione della società senza mezze misure.

«Solo pochi mettono in questione l’idea stessa di società», concetto ritenuto sacro – a torto. Ogni afflato libertario, per Faun, non può non passare dall’eliminazione della società, oltre che dello Stato: «Io vedo la società come sistema di rapporti tra esseri che vengono trattati e agiscono interpretando ruoli sociali, con lo scopo di riprodurre sia il sistema che loro stessi in quanto individui sociali». La società è una mascherata che reprime la libertà e la spontaneità e, nella divisione dei ruoli, ci rende bisognosi piuttosto che desiderosi l’uno dell’altro. «Ci utilizziamo reciprocamente. Dunque ogni rapporto sociale è un rapporto del tipo: datore di lavoro/impiegato… Com’è possibile non disprezzare chi utilizziamo e odiare chi ci utilizza?». Di più: «I ruoli sociali sono lavoro, nel senso di un’attività che riproduce il ciclo produzione-consumo. La società è quindi il mezzo di addomesticamento degli esseri umani».

John Zerzan, piuttosto che nella società tout court, individua il nemico da abbattere nell’economia. (In realtà lo stesso Faun critica la società in quanto improntata su rapporti sociali di tipo economico; il pensiero dei due autori, pertanto, si equivale). “Distruggi l’economia”, titolo ed esortazione del breve saggio di Zerzan, debutta con l’innegabile verità che «attualmente le nostre vite dipendono dal successo dell’economia». Per vivere «dobbiamo cercare un ruolo nell’interminabile processo di espansione commerciale», consumando o lavorando. «Anche chi percepisce la negatività di un’economia in continua espansione darà tipicamente il benvenuto alla sua presenza, perché solo lei potrà fornire i lavori di cui abbiamo così disperatamente bisogno per pagare le bollette». Ma si chiede Zerzan: «E se non ci fossero bollette da pagare? Questo è stato il caso per più del 99% della storia umana». Abbiamo comprato la comodità a caro prezzo – un costo che si rivela giorno dopo giorno sempre più insostenibile, sia per noi che per il pianeta.

Zerzan rimpiange i modelli produttivi delle società indigene preindustriali – ormai tutte spazzate via – in cui ognuno poteva soddisfare i propri bisogni da sé senza «sfruttatori intermediari quali capi, proprietari terrieri, poliziotti, politici, “esperti” autoproclamatisi tali»; il lavoro raramente superava le quattro ore al giorno e non era mai alienante: «cercare cibo o coltivare in compagnia di persone amiche godendo del paesaggio naturale è una forma di “lavoro” molto più significativa e soddisfacente che l’attività lavorativa meccanizzata e regimentata tipica dei giorni nostri». Dobbiamo aspirare a un’esistenza quanto più autosufficiente e sostenibile possibile, limitando al massimo la dipendenza dall’economia industriale. «Saremo liberati dalla necessità di lavorare solo quando avremo rifiutato con forza l’obbligo di pagare per la libertà di usare e occupare le terre che ci sono state sottratte».

Lascio al lettore la scoperta degli altri saggi, tra cui uno di Murray Bookchin e uno di Bill Joy; mi preme, infatti, dipanare delle considerazioni su alcune derive dell’anarchismo, sovente troppo attaccato a certi moduli di pensiero marxisti. Mi chiedo se si può sempre e comunque, in nome della solidarietà verso gli operai, sostenere le loro lotte per rimanere ancorati a un lavoro percepito come detestabile ma necessario. Sottomettersi alle schiavitù di un sistema basato sul profitto capitalistico con la sconsolata constatazione che “non c’è altro da fare” non fa che perpetuare il sistema stesso; lottare per rivendicare il diritto al lavoro – il lavoro industriale! – giustifica l’esistenza di servi e padroni.

Non sono questioni facili, lo so. Ho ancora in mente molte, troppe scene di “La classe operaia va in paradiso”, ma se c’è una cosa che in quel film emerge in modo chiaro è che da soli, rimanendo all’interno di questa società, difficilmente la conclusione sarà vittoriosa. Voltiamogli le spalle: torniamo al primario, riappropriamoci di ciò che è più naturale e che più ci compete – la natura; anziché favoleggiare una collettivizzazione dei mezzi di produzione industriali (e pertanto borghesi), scimmiottando i comunisti, valutiamo la possibilità di formare delle comunità libertarie basate sull’autoproduzione, sul mutuo soccorso, sulla condivisione di mezzi e conoscenze. Se vogliamo essere veramente liberi, rigettiamo le pastoie di un sistema che ha realizzato per noi delle confortevoli gabbie, rendendoci affatto incapaci di badare da noi stessi alla nostra esistenza, per la quale basta un rifugio e un orto da coltivare, candidamente.

(Recensione anarchica pubblicata nel numero 317 di Sicilia Libertaria).

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