Ancora sulla cosiddetta “felicità” La costruzione della felicità di Martin Seligman

Torno sulla questione della felicità anzitutto perché non vorrei passare per neolombrosiano o per colluso con le case farmaceutiche – mi sembra questa la velata critica di Chiara Gazzola espressa nel dibattito pubblicato nello scorso numero – e in secondo luogo perché a questo status fisico e mentale di cui parliamo ci tengo (potrebbe essere altrimenti? Non conosco nessuno lieto di non essere lieto – e se lo fosse, dev’essere felice così…).

Prima, però, alcuni chiarimenti. Intanto, il termine “felicità” è forse desueto. In tempi di austerity probabilmente preferiamo il più sobrio “serenità”, e riserviamo la felicità, da bravi utopisti, per tempi migliori (arriveranno mai?). Poco conta: possiamo chiamarla come vogliamo, ma sbaglieremmo nell’intenderla come uno stato emotivo eccezionale e passeggero. Consideriamola analoga all’amore piuttosto che all’orgasmo. Poi, la vecchia e trita contrapposizione tra natura e cultura: penso che nella nostra vita i geni pesino tanto quanto l’ambiente. L’equilibrio nature/nurture, per molti attuali studiosi (con cui concordo), è 50:50, del tutto insufficiente per parlare di determinismo genetico. Se ciò mi rende un lombrosiano, che dire di chi pensa che responsabile di tutto sia l’ambiente? Ne erano convinti anche i gesuiti e i comportamentisti, due caste di ciarlatani che sconsiglio di frequentare.

Ma veniamo al libro del mese, La costruzione della felicità (Sperling 2003) di Martin Seligman (autore su cui sconsiglio vivamente di documentarsi onde evitare a priori di non leggerne l’opera per mero pregiudizio). Lo scopo dello scritto è quello di «incrementare gli stati che rendono la vita degna di essere vissuta» – il che potrebbe essere una buona definizione di felicità, sebbene un po’ tautologica. Seligman riconosce subito una difficoltà: la convinzione che la felicità sia inautentica. Mi sembra un’accusa parallela a quella di Chiara nei confronti della depressione. Da filosofo, m’importa poco che tali stati siano inclusi o meno in uno dei DSM: credo che ognuno sappia capire se ritenersi soddisfatto o meno della propria vita; ed è chiaro che, se uno non lo è, si possono trovare dei fattori su cui intervenire. L’errore sarebbe quello di credere che basti cambiarne uno – le condizioni materiali, in questo caso – per diventare “felici”. In realtà si deve operare almeno su tre fronti: quello delle emozioni, quello delle potenzialità e quello delle istituzioni. La “psicologia positiva” si occuperà pertanto di tutti e tre questi aspetti della realtà: tralasciarne anche uno soltanto renderà la ricerca della felicità pressoché vana.

Uno dei primi miti che viene abbattuto nel testo riguarda l’edonismo: la ricerca del piacere immediato non ci rende più felici. Dobbiamo mirare a qualcosa di più durevole e soddisfacente. «L’esercizio della bontà, dell’umanità, della cordialità sono gratificazioni, diverse dal semplice piacere». Oltre alle gratificazioni dobbiamo stare attenti alle nostre potenzialità: la felicità infatti ha inizio dalle cose che meglio possiamo controllare; il che non significa che non bisogna lottare per qualcosa che trascenda il nostro personale interesse, visto che questo è strettamente collegato a quello altrui!

Anche Seligman propone la formula della felicità (felicità = “quota fissa” di felicità + circostanze della vita + fattori che dipendono dal nostro controllo) e ci ricorda che «circa il 50 per cento dei tratti della personalità risulta imputabile all’ereditarietà genetica». Non gridiamo al determinismo però, dato che anche persone tendenzialmente malinconiche possono raggiungere buoni livelli di felicità. Bisogna capire, tuttavia, “dove” cercarla. Consideriamo bene alcune nostre peculiarità, tra cui la rapidità di adattamento agli eventi. Vincere una lotteria non ci rende, alla lunga, più felici di quanto fossimo prima (similmente, solitamente ci si riprende anche da danni fisici). Inoltre ci abituiamo presto a nuovi livelli di cose positive. «La ricchezza, che indubbiamente porta con sé un maggior numero di beni materiali, ha una correlazione sorprendentemente bassa con il livello di felicità». Il denaro ci rende infelici solo se è veramente insufficiente; oltre una certa soglia non serve a renderci più felici… Similmente la salute: ciò che conta è come la percepiamo soggettivamente.

Analizzando varie strategie per la felicità, Seligman ci propone un primo menù: per elevare il livello di felicità della vita, dovremmo vivere in una democrazia prospera, sposarci, evitare emozioni negative, avere un ricco tessuto di rapporti sociali e professare una fede (ebbene sì: ma anche l’anarchismo, in un certo senso, lo è…). Non dovremmo invece preoccuparci di fare più soldi, di mantenerci più in salute, di diventare più colti possibile e di trasferirci in un clima più soleggiato (sulle ultime due non ci avrei giurato…). Il problema è che questi fattori spesso sono difficili o impossibili da cambiare. Ad ogni modo, tali fattori esterni incidono sulla felicità, per Seligman, non più del 15%. Meglio provare a mutare le circostanze interne.

Secondo Seligman, la psicologia ha trascurato lo studio delle virtù. In base alle attuali conoscenze, possiamo definire “universali”, in quanto riconosciute pressoché ovunque, sei virtù: saggezza, coraggio, amore, giustizia, temperanza e spiritualità. Coltivarle ci renderà più sereni (ma questo i filosofi lo avevano capito da millenni!). Nel quadro di queste sei virtù possiamo scorgere almeno 24 “potenzialità” (il cui elenco completo è: curiosità, amore per il sapere, discernimento, ingegnosità, intelligenza sociale, lungimiranza; valore, perseveranza, integrità; cordialità, amore; senso civico, imparzialità, leadership; autocontrollo, prudenza, umiltà; capacità di apprezzare la bellezza, gratitudine, speranza, spiritualità, capacità di perdonare, humour, vitalità). Sottoponendoci a un test presente, oltre che nel libro, nel sito www.authentichappiness.com, potremo capire quali tratti contraddistinguono maggiormente la nostra personalità, e lavorare per svilupparli. Infatti «nella vita i maggiori successi e le più intense soddisfazioni emotive derivano dallo sviluppare e usare le potenzialità personali» – il che è molto diverso dal cercare i piaceri fugaci e passeggeri…

Oltre a sviluppare le potenzialità, dovremmo dedicarci di più ad attività che ci permettano di sperimentare il “flow”, quel flusso di entusiasmo appassionato che proviamo svolgendo un compito che costituisce una sfida e richiede abilità, in cui si è concentrati, con obiettivi chiari e con un feedback immediato, si prova un coinvolgimento profondo e si ha un senso di controllo su ciò che si fa. Inoltre – cosa da non sottovalutare – durante simili compiti il senso di identità si dissolve e il tempo si ferma. Per contro, «uno dei principali sintomi della depressione è l’avvitamento su sé stesso del soggetto. La persona depressa bada molto, troppo, a come si sente». Bisogna inoltre imparare ad essere più ottimisti, cercando di trovare cause permanenti e universali agli eventi positivi e cause transitorie e specifiche per le sventure (fare il contrario è «l’arte della disperazione»). Per “costruire” l’ottimismo, inoltre, un buon metodo è quello di riconoscere e mettere in discussione i nostri pensieri pessimistici, trattandoli come se fossero giudizi su di noi espressi da un estraneo che vuole rattristarci…

Personalmente in tutto ciò non vedo nulla di “autoritario”. Non si tenta di propinare farmaci né terapie: si punta dritti all’automiglioramento. Certo, l’autore non spinge apertamente ad impegnarsi in lotte politiche, anzi avanza il dubbio che non basta mutare le condizioni esterne, “oggettive”, per essere felici. Semplicemente, la felicità è la congiunzione tra la serenità soggettiva e il benessere oggettivo. Credere che basti solo quest’ultimo per renderci felici preserva la purezza dell’utopia a scapito della comprensione antropologica.

(Recensione anarchica pubblicata nel numero 316 di Sicilia Libertaria).

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