Sulla cosiddetta “democrazia” dell’Occidente Critica della democrazia occidentale di David Graeber

Personalmente in estate mi ritrovo con più tempo – e più voglia – per leggere, ma capisco bene che non è il caso di proporre opere ponderose: meglio suggerire un libello snello, ma non per questo leggero, visti gli argomenti trattati.

Critica della democrazia occidentale” (Elèuthera 2012) è l’ultimo testo tradotto in Italia di David Graeber, uno dei teorici del movimento Occupy Wall Street. Duole ammettere che il titolo italiano non è molto indicativo del contenuto: quello originale, “There never was a West: or, Democracy emerges from the spaces in between”, è assai più preciso e condensa in due periodi l’argomento del libro. Che anche la casa editrice Elèuthera indulga nei tipici giochetti dell’editoria nostrana per rendere i propri libri più accattivanti è una cosa che ci rammarica. Ad ogni modo, intendiamo il titolo kantianamente: questo breve saggio evidenzia i limiti dell’idea che la democrazia sia un’invenzione occidentale.

L’introduzione solleva un buon numero di interrogativi: «La “democrazia” è un concetto intrinseco all’idea stessa di “Occidente”? … La democrazia implica necessariamente il dominio della maggioranza? La democrazia rappresentativa è realmente democratica? … È possibile riscattare il pianeta con forme decentrate di democrazia diretta basate sul consenso?». In realtà Graeber, in questo saggio, intende rispondere soprattutto alla prima domanda, mostrando come quella occidentale non sia vera democrazia: questa infatti si annida negli “spazi intermedi” tra più culture, in quegli «spazi di improvvisazione interculturale in gran parte fuori dal controllo degli Stati».

Graeber è, tutto sommato, ottimista: è convinto che lo Stato stia passando un periodo di crisi, e rileva come i movimenti antagonisti alla “violenza organizzata” (questa la sua concezione di Stato) «sono tutti sostanzialmente d’accordo sull’importanza di costruire strutture decisionali orizzontali piuttosto che verticali; sulla necessità di dar vita a iniziative che procedano dal basso, a partire da piccoli gruppi autonomi e auto-organizzati… sul rifiuto di leadership designate e permanenti» – tutte idee e pratiche che gli anarchici hanno sempre sostenuto e tentato di diffondere. Il debito nei confronti dell’anarchismo è pienamente riconosciuto; purtroppo, secondo l’autore, molti rifiutano la definizione di anarchico preferendole quella di democratico. Per Graeber, sostanzialmente, anarchia e democrazia sono la stessa cosa: del resto «la democrazia è semplicemente il modo in cui le comunità risolvono le proprie faccende attraverso un processo di discussione pubblica relativamente aperto ed egualitario» – cosa che accade in molte comunità rurali ma non nei moderni Stati sedicenti democratici.

La democrazia rettamente intesa, sostiene Graeber, non è un’invenzione dell’Occidente, né tanto meno corrisponde a quella cosa che oggi, in Occidente e nel mondo intero, viene spacciata per tale. In realtà, come ci spiega l’autore, nemmeno i padri fondatori di quella che oggi è nota come la “democrazia più grande del mondo” (sic) avevano intenzione di fondare una democrazia (erano anzi apertamente anti-democratici!): al massimo una repubblica, prendendo come modello la Roma antica piuttosto che la Grecia (anche quest’ultima, in realtà, non esattamente democratica, se non per i fortunati cittadini maschi adulti autoctoni…). Se oggi chiamiamo molte di tali repubbliche (ovvero Stati-nazione) “democrazie” è solo perché il termine, nei primi decenni dell’Ottocento, divenne di moda e venne rapidamente adottato anche dai politici più riluttanti, beninteso ai meri fini propagandistici.

Ma veniamo alla parte teorica, dopo la disamina storica. Per Graeber è di fatto impossibile «coniugare procedure e pratiche democratiche con i meccanismi coercitivi dello Stato». Anche il meccanismo dello Stato più “democratico”, infatti, implica il prendere le decisioni non tramite un processo di compromesso e sintesi, ma con una «sfida pubblica» in cui la volontà della maggioranza schiaccia quella della minoranza – taciamo, poi, del fatto che ad esercitare de facto il potere è una minoranza, una élite. «Le pratiche democratiche – definite come procedure decisionali egualitarie oppure modalità di governo basate sulla discussione pubblica – tendono ad emergere da situazioni in cui comunità di vario genere gestiscono i propri affari al di fuori dell’ambito dello Stato». Purtroppo queste situazioni “marginali” non sono mai state viste di buon occhio né dai politici, per comprensibili motivi, né purtroppo dai filosofi: la democrazia intesa in tal modo – l’unico possibile, a nostro avviso – è stata sempre offuscata da quella che Graeber, sulla scia di Francis Dupuis-Déri, chiama “agorafobia” (la «diffidenza verso le deliberazioni e le procedure decisionali pubbliche», ma anche lo spauracchio che il popolo sia una grande bestia assassina e l’anarchia il ristabilirsi della “legge della teppa”). Questa concezione si riflette nel fatto che «le democrazie liberali non hanno niente di simile all’agorà ateniese, ma non scarseggiano di circhi romani».

Nel capitolo finale Graeber mostra di avere le idee chiare sul da farsi. Tanto le soluzioni di destra che quelle di sinistra gli appaiono come contraddittorie, autoritarie, intrinsecamente antidemocratiche: «Bisogna abbandonare l’idea che la rivoluzione significhi impossessarsi dell’apparato coercitivo dello Stato e innescare invece un processo di rifondazione della democrazia basata sull’auto-organizzazione di comunità autonome» (come farlo capire ai “comunisti”?). «Sembra quasi che la democrazia stia tornando negli spazi da cui è sorta: negli spazi intermedi, negli interstizi del potere. Se da lì riuscirà a estendersi all’intero pianeta dipenderà non tanto dalle nostre teorie quanto dalla nostra reale convinzione che la gente comune, seduta insieme a deliberare, sia capace di gestire le proprie faccende meglio delle élites che le gestiscono a loro nome e che impongono le decisioni prese con la forza delle armi».

(Recensione anarchica pubblicata nel numero 319 di Sicilia Libertaria).

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