Amori inorganici

Questa mania, questo voyeurismo senza peccato né colpa perdura tuttora. Percorro con gli occhi gli snodi, qualora presenti; mi prefiguro aperture possibili, contorsioni inumane, contatti ibridi, meticciamenti plastico-carnali. Sono malato? Non sono il primo né sarò l’ultimo. E.T.A. Hoffmann, in Der Sandmann, narra magistralmente del disperato amore di Nathanel per Olympia, un automa meccanico dalle sembianze umane, anzi di più, di straordinaria quanto inquietante bellezza: «certo non si poteva non ammirare il suo bel viso e la sua statura. La schiena stranamente incavata e la sottigliezza della vita erano senza dubbio da attribuirsi al busto troppo stretto. Nei suoi atteggiamenti e nel suo incedere vi era qualcosa di rigido e di misurato che a molti dispiaceva»1. Ma oltre alla bellezza Nataniele ne ammira il carattere e le buone maniere, così diverse da quelle delle donne comuni: Olimpia, ascoltatrice instancabile dei componimenti e delle fantasie del suo amante, «non ricamava, non faceva la calza, non guardava dalla finestra, non dava da mangiare all’uccellino, non giocava con il cagnolino in grembo, non aveva il suo gatto preferito, non rigirava nelle mani pezzetti di carta o altro, non doveva scacciare lo sbadiglio con una tossettina appena forzata, in breve, per lunghe ore rimaneva rigida con gli sguardi fissi negli occhi dell’amato, senza voltarsi, senza muoversi, e quello sguardo diventava sempre più vivo, sempre più ardente»2. Come non ravvedere in tale totale dedizione la più profonda comprensione, il più incondizionato amore?


Se quella di Hoffmann alla fine è soltanto una fantasia da scrittore, un “notturno”, quelle di Oskar Kokoschka sono ossessioni che s’incarnano in reali, deliranti comportamenti. Dopo la turbinosa e ormai finita relazione dell’artista con Alma Mahler, vedova del compositore, «Kokoschka vuole inverare in un feticcio quell’ossessione che non lo abbandona, una bambola a grandezza naturale che non possa più sfuggire né essere infedele, e invia istruzioni sempre più minuziose perché la Moos [che fabbricava bambole a Monaco] possa riprodurre fino all’ultimo dettaglio il corpo dell’amata Alma»3.


«Ciò che segue quando la bambola arriva a Dresda è degno di un racconto di Hoffmann. Nonostante la delusione di Kokoschka davanti a quel goffo fantoccio più simile a un orso di pezza che alla vera Alma, la bambola rivestita di biancheria e abiti all’ultima moda avrà una cameriera personale, sarà portata in carrozza, lo accompagnerà in palco a teatro, presenzierà ai suoi incontri con gli amici, gli farà da modella»4.


L’ossessione diventa nevrosi e perversione nelle nervose contorsioni della Puppe di Hans Bellmer, che aveva voluto costruire «una ragazza artificiale dalle possibilità anatomiche capaci di rifisiologizzare le vertigini della passione fino a inventare desideri»5.


«La Bambola cambia secondo le variazioni che le fanno subire l’estro dell’artista e il caso. Le posizioni che può assumere stupiscono lo stesso suo creatore. Certe combinazioni scatenano un piacere senza pari o “paragonabile, a rigore, a quello che si deve provare trovando un tesoro febbrilmente cercato per venti o trent’anni”»6. Con questa perversa Bambola Bellmer «avrebbe intrattenuto un lungo, scandaloso rapporto di convinvenza»7.


Ma se i tentativi di Kokoschka e Bellmer sono tuttavia goffi tanto quanto patologici, l’arte pop e l’iperrealismo danno concreta materia alle fantasie più riposte e inconfessabili senza che gli artisti stessi ne subiscano il tormentato influsso (almeno speriamo). «Quando ci si trova accanto ai corpi nudi di John De Andrea, morbidi come di carne viva, realistici in ogni particolare, in ogni piega, in ogni poro della pelle (sono eseguiti da calchi dal vivo, in fibre viniliche, con capelli, ciglia, peli veri e veri vestiti) realizzati a grandezza naturale […] ci sentiamo oppressi, come minacciati da presenze infide, da androidi alieni, pronti ad impadronirsi del nostro mondo, a sostituire la nostra civiltà in declino»8.


Ho avuto la fortuna di vedere dal vivo, in una mostra dedicata all’iperrealismo a Roma nel 2003, questa straordinaria scultura, e vi assicuro che l’effetto è straniante quanto eccitante.


Ma se quelle di De Andrea sono anche (forse soprattutto) manifestazioni di virtuosismo («consideriamo del tutto velleitaria la meticolosa ricostruzione di corpi nudi come quella di John De Andrea dove solo l’abilità tecnica prende il posto d’una vena fantastica»9), le opere di Allen Jones, le sue donne-oggetto, veicolano messaggi più profondi.


Le sue sono «sculture tridimensionali, immagini dalla erompente femminilità cartellonistica, per le quali lo slogan frusto della “donna oggetto” è portato, ironicamente e sadicamente, al massimo della sua interpretazione, fino a far diventare la donna oggetto-servizio dell’ambiente domestico (i suoi mobili intimi, donna-reggi-tavolo, donna-sedia, donna-stipo, ecc.)»10.


Idea peraltro ripresa da Ikea, ma con altri fini (forse).


E fini del tutto diversi, ancor più estremi nella loro urgente materialità (e qui torniamo all’inizio della nostra carrellata), sono quelli perseguiti dalle varie “bambole”. (continua…)

1 E.T.A. Hoffmann, L’uomo della sabbia, Mondadori, Milano 1987, p. 48.
2 Ivi, pp. 52-53.
3 Eva Di Stefano, Kokoschka (Dossier Art n° 123), Giunti, Firenze 1997, p. 34
4 Ibidem.
5 Ottavio Fatica, “La pupilla dei suoi occhi”, in Hans Bellmer, Anatomia dell’immagine, Adelphi, Milano 2001, p. 80.
6 Ivi, pp. 83-84.
7 Ivi, quarta di copertina.
8 Lara-Vinca Masini, L’arte del Novecento (vol. 5: “Dalla Pop Art all’Arte del Corpo”), Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2003, p. 889.
9 Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Feltrinelli, Milano 2004, p. 156.
10 Lara-Vinca Masini, L’arte del Novecento, cit., p. 831-832.

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