Consigli estivi per letture ribelli Trattato del ribelle (Ernst Jünger, 1951)

È estate, anzi qualcosa di peggio – questa temperatura me l’aspettavo all’inferno. Le membra si fiaccano, i cervelli entrano in ebollizione e la voglia di leggere se n’è andata almeno fino all’autunno: del resto, sotto l’ombrellone è più consono uno smartphone davanti al quale rincoglionirsi ulteriormente che un libro raffinato e impegnativo che ci dia da pensare e ci faccia riflettere. C’è voglia di divertimento, legittimamente: divertimento in mutande – a volte fatte passare per costume – ma tant’è. Perché tra un paio di mesi, non appena questo caldo globale avrà un po’ mollato la presa, lo sappiamo cosa accadrà, giusto? (Se no, non avete seguito le vicende del Cile, né quelle del più vicino ma altrettanto distante Regno Unito). Sì, lo sappiamo tutti ma non vogliamo pensarci proprio adesso. Grave errore: leggiamoci qualcosa di utile sopra quel telo da mare, qualcosa che possiamo portare comodamente in tasca come una bomba a mano: il Trattato del ribelle di Ernst Jünger.

Sì, quello Jünger. E sì, quel libricino caro a tante teste rasate (ma provate a interrogarli e vedrete che non l’hanno mai letto davvero…). Leggiamolo noi allora, così come leggiamo con diletto i libri di Malaparte che col fascismo ci trescò eccome – Jünger non sostenne mai attivamente il nazismo, e si tenne scrupolosamente alla larga dagli apparati goebbelsiani. «Nell’epoca in cui viviamo gli organi di potere ci interrogano senza posa… Ciò che gli importa non è la nostra soluzione, bensì la nostra risposta». Settant’anni fa Jünger si riferiva alle elezioni: ora possiamo dire lo stesso dei social media, di Facebook in particolare: dispositivi di potere formidabili – abbiamo o no al governo in Italia gente saltata fuori da un tragicomico sito internet? – la cui importanza e insolenza viene spesso sottovalutata. Mi sento tirato continuamente in ballo a dire la mia sui vaccini, sul decreto Zan, sui rondoni che cadono, per essere subito taggato come di destra o di sinistra. Vallo a spiegare che su molte cose si può essere equilibratamente a favore e contro al contempo, libertariamente comprensivi e critici.

«Lo spettacolo di grandi masse in preda al delirio della passione è tra i segni più importanti del nostro ingresso in un’epoca nuova» (continuiamo a chiamarlo nazista, dài…). «Tale è la suggestione di questo spettacolo da provocare, se non unanimità, almeno consonanza: un turbinio si leverebbe subito, infatti, a provocare lo sterminio di chiunque osasse esprimere una voce discordante». Oggi in realtà le voci discordanti hanno spazio, ma giusto per essere dileggiate dalla parte autoinvestitasi come unica detentrice della “verità”. Avanzi una sacrosanta critica ai vaccini, e perdi “amici”. Fai notare l’assurdità e pericolosità di molta legislazione “di emergenza” e vieni preso per irresponsabile. Giri all’aria aperta senza straccetto al naso e vieni bollato come fascista. Inevitabile, a questo punto, che quelle grandi masse inizino a farti paura, anziché entusiasmarti come negli anni giovanili: sono le stesse persone che nonostante doppio, triplo e quadruplo vaccino continueranno ad accettare le irrazionali imposizioni liberticide – ché di questo si tratta.

«La propaganda ha bisogno di una situazione nella quale il nemico dello Stato, il nemico di classe, il nemico del popolo sia già stato messo fuori combattimento e quasi ridicolizzato… Il semplice consenso non basta alle dittature: per vivere esse hanno bisogno altresì di incutere odio e, per conseguenza, di seminare il terrore». Dovrebbero essere cose ben risapute: restano comunque parole d’oro, un ottimo riassunto di cosa sia il potere e un perfetto compendio di etologia, antropologia e sociologia. L’ho già detto e lo ripeto: l’operazione che stiamo subendo è divide et impera – tenerci divisi nelle opinioni, allontanati dalla “distanza di sicurezza”, separati dalla paura eterodiretta. La sicurezza non è veramente ciò che si vuole ottenere: il potere anzi si nutre proprio del suo opposto, l’incertezza. «L’aspetto irritante di questo spettacolo è il legame tra una statura così modesta e un potere funzionale così enorme. Questi sono gli uomini… dalle cui decisioni milioni di persone dipendono» (le abbiamo viste tutti le rivoltanti immagini del G20, in cui l’unico degno d’ammirazione è stato il monumentale Nicola Frangione…).

«Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quella della bestia da macello». Tutta la retorica dello stare a casa ha cambiato in profondità il modo di pensare e di (non) agire di molti: proprio ieri leggevo di una statistica che ci rivela che gli universitari preferiscono le lezioni online (potrebbe anche essere inventata, e sarebbe ancora più inquietante…). «Il Ribelle è deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo». E ancora, il Ribelle «non si lascia imporre la legge da nessuna forma di potere superiore né con i mezzi di propaganda né con la forza». Mi sembra molto, molto chiaro. Superomistico, forse (e dunque ecco che scatta l’automatismo: “di destra”). Ma anche stirneriano, in fondo (e Stirner era un compagno… o no?).

Ok, lasciatemi sfogare – la verità è che la sinistra, ammesso che esista ancora e concedendo che un anarchico possa comunque simpatizzare più per una parte che per l’altra, mi aveva già deluso da anni. Oggi un’opposizione anche solo un minimo critica avrebbe fatto proprie le parole di Jünger: «assai sospetto, e dunque da considerare con estrema vigilanza, è l’intervento crescente che, di solito con pretesti filantropici, lo Stato esercita sull’organizzazione sanitaria… Non sappiamo in quali statistiche possano includerci, né se riguardino davvero e soltanto il settore medico. Ma tutte quelle fabbriche della salute con medici assunti e mal retribuiti, le cui cure vengono assoggettate al controllo burocratico, sono sospette: da un giorno all’altro – e non soltanto in caso di guerra – potrebbero assumere un volto inquietante». Ci sono voluti settant’anni, ma la profezia si sta realizzando appieno proprio oggi.

[Postilla per l’incauto e curioso lettore: a un certo punto il nostro trattatello si colloca su posizioni che qualcuno oggi potrebbe considerare intollerabilmente antivacciniste o socialdarwiniste («siamo proprio certi che il mondo delle assicurazioni, delle vaccinazioni, dell’igiene scrupolosa, della vita media più lunga sia un vantaggio?»); verso la fine, poi, prende una deriva spiritualista francamente indigesta, almeno a me. Chi non volesse passare al bosco con Jünger ma rimanere dalla parte più riconosciuta come libertaria può leggere in alternativa i Consigli a un giovane ribelle di Christopher Hitchens o La politica del ribelle di Michel Onfray. Che non scrivono bene come Jünger, sia chiaro: ma nemmeno indulgono in vagheggiamenti che fanno venire l’orticaria. L’importante è ripensare bene alla figura del ribelle, questa estate: ci servirà per l’autunno].

(Pubblicato nel numero 417 di Sicilia Libertaria)

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Il Maestro e il Filosofo Contro la musica (Manlio Sgalambro, 1994)

Lo ammetto: il 18 maggio scorso sono andato in pellegrinaggio a Milo, dalle parti di via Mazzini. Volevo vedere il luogo dove il Battiato meno spirituale e più fisico si muoveva, componeva, meditava e in cui si appartò ignaro delle follie del mondo esterno degli ultimi tempi. Mi aspettavo schiere di fan a stonarne i successi sotto casa, e invece ho trovato solo orde di cosiddetti “giornalisti” con telecamere puntate sull’ingresso di Villa Grazia, pronti a immortalare e a intervistare quei pochi che avevano accesso al buen retiro. Il cordoglio in realtà s’è mosso tutto sui social, ed è stato uno strazio: perché altri dei suddetti cosiddetti hanno inondato internet dei loro omologatissimi coccodrilli, o peggio hanno compilato delle vere e proprie rubriche aperte sui peli del Maestro. Almeno i fan si sono limitati a salutarlo condividendo un video sgranato, benché senza staccare il culo dalla sedia quando come minimo era richiesto un balletto scomposto – pardon, una danza sacra gurdjieffiana: ma pare sia la nuova normalità, “agire” stando fermi.

Ho provato a capire meglio qualcosa dell’enigma Battiato. Che, come si sarà intuito, a me piace fin da quando a quattordici anni misi mano su una cassetta malamente duplicata dell’Imboscata. “Piace” non rende l’idea: credo fermamente che Battiato sia il più grande cantautore che abbiamo avuto in Italia – e non me ne vogliano i fan di Battisti o di De André. Sicuramente il più eclettico: però pur sempre un compositore di canzoni – e scusate se è poco. Mi sono sventurato a leggere finanche articoletti stizziti di presunti suoi “amici” che gli rimproverano – post mortem, da gran signori – di non essere stato un vero intellettuale, né un guru particolarmente illuminato. Chissene: giudichiamone l’arte. Solo che l’arte va valutata in proprio, da soggetto dotato di orecchie e di cervello con un personale background di ascolti, tale anche da poter dire, se il caso: “già sentito” (ma cosa non lo è, a voler compilare una genealogia della musica?), o anche: “mi fa cacare” (ognuno ha i metodi lassativi che preferisce: per me sono infallibili Pezzali e Cherubini).

Tuttavia non sono qua in veste di critico musicale ma di più modesto suggeritore di letture. Mi sono reso conto di non ritrovarmi nulla di Battiato nella libreria: meglio così, primo perché (repetita iuvant) Battiato è un cantante e come tale va giudicato, kantianamente e cioè soggettivamente; secondo perché le uniche cose cartacee che si possono trovare col suo nome in copertina sono in realtà becere operazioni commerciali intrise di conati esoterici o interviste malriuscite. In compenso di Manlio Sgalambro ho pressoché tutto: anche quelle cosette pubblicate dalla sua De Martinis e poi confluite in De mundo pessimo per i tipi dell’Adelphi. È qui che ho scovato Contro la musica, uscito originariamente nel 1994, cioè un anno prima che cominciasse la collaborazione Battiato-Sgalambro. Memorabile incipit: «Un fantasma si aggira tra noi. Il fantasma della musica. Una opprimente melassa, un indistinto in cui si trova di tutto, musica da camera e musica da piazza, per pochi e per molti, buona e cattiva musica».

Leggi queste righe e già immagini Sgalambro a due passi dalla fera ’o luni stizzito per l’ubiquità della cacofonia catanese. «Mentre prima la musica si andava ad ascoltare percorrendo leghe a dorso di mulo, oggi è essa che si fa sentire senza remissione. Ovunque tu sia, ti agguanta per il collo e ti impone di ascoltarla con varie promesse». La musica è legata a doppio filo con l’ascolto, oggigiorno: fare musica è farsi ascoltare, «farsi sentire costi quel che costi. Adoperare anche il silenzio pur di spuntarla». Solo che Sgalambro non è John Cage ma un uomo del nostro spazio, prigioniero di una città che disconosce il silenzio – tanto Battiato si ritirò fuori mano quanto Sgalambro si insediò nel pieno centro di Catania. «La musica dionisiaca è la presente democrazia musicale. Tutti possono suonare: i passeri non lo fanno tutti? Tutti possono ascoltare: non hanno tutti le orecchie?»: e dunque giù a scrivere testi, invitandoci a rimandare il suicidio; e poi a recitarne, tautò tèni zòn ché tanto siamo solo di passaggio; e poi direttamente a cantarne, me gusta marihuana me gustas tú…

Il problema della musica è anche e soprattutto ontologico: «perché la musica e non il (suo) niente?». L’abbiamo già detto: per il nostro mero piacere, per puro soggettivissimo gusto estetico. Esticazzi se qualche stolto a Battiato preferisce l’uva passa! «Musica per nervi, questa è la musica che amiamo. La grandezza della musica “leggera” è proprio qui». Nella sterminata produzione di Battiato c’è qualcosa per ogni stagione, non solo per quella dell’amore: c’è stato un periodo in cui Un’altra vita ascoltata a loop mi ha spinto veramente a cercare una dimensione alternativa lontana dai semafori e dagli stop – quando si dice che la musica può cambiarti la vita. E ben venga pure il suo sincretismo musicale: come giustifica suo compare Manlio «il “precedente”, il “già visto”, il “già udito” rappresentano “l’usato” di cui ci si appropria. Il “rubacchiare”, in filosofia come in musica o in letteratura, è l’attuale forma di rapporto in cui fondamentale è diventata l’imitazione, non la deprecata originalità».

Mi rendo conto che a questo punto il proposito di svelare il mistero di Battiato – il motivo per cui ci piace così tanto, e non solo a noi siciliani per ovvi motivi campanilistici – è naufragato malamente (una catastrofe psicocosmica!), così come l’intenzione di parlare anche di Teoria della canzone, altro testo di Sgalambro pubblicato ormai in piena collaborazione battiatesca. Lascio a te, o lettore, il compito di approfondire; ma soprattutto ti lascio il piacere o dispiacere (sempre ricordando che «la soddisfazione che ci procura la musica è di tipo sadomasochistico»…) di scoprire o riscoprire tutto Battiato, non solo quello dei classici strafamosi: a partire da Fetus, con quella copertina a dir poco controversa col feto abortito e pieno di suoni spaziali ottenuti col VCS3. E quand’anche giungessi a pensare che certi dischi del Maestro suonano meglio se scartavetrati e passati sotto fiamma d’accendino, sappi che in fondo stai seguendo il sacrosanto suggerimento di Sgalambro: «Ascolta la musica e poi dalle fuoco. Questo dovrebbe essere, anzi, il giusto rapporto con l’arte in generale».

(Pubblicato nel numero 416 di Sicilia Libertaria)

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Come (non) imparare dalla storia Mussolini ha fatto anche cose buone (Francesco Filippi, 2019)

Non ho mai amato particolarmente il giorno cosiddetto della “liberazione”: forse perché non riesco a dissociare la memoria della fine di una dittatura – ma non era già caduta nel ’43? – da quella dell’inizio di un’altra ben più duratura, che mi viene ricordata quotidianamente dal sinistro lampeggiare notturno dell’antennone da duecentocinquanta metri della base Muos di Niscemi. Tanto vale festeggiare direttamente il 28 aprile, anniversario dell’esecuzione partigiana di quel furioso babbeo che per vent’anni e passa ha fatto il buono e il cattivo tempo in Italia. Ma quant’è il buono che ha fatto? Prova a spiegarcelo Francesco Filippi in un libriccino che per via del titolo ha tratto in inganno diversi nostalgici semianalfabeti – il sottotitolo bene in vista sulla copertina mette in guardia sulle idiozie che continuano a circolare sul fascismo. L’opera è costruita come uno smontaggio punto per punto delle bufale che ci vengono ammannite sul testone mascellone.

I primi due capitoli demoliscono il mito del Truce che avrebbe dato agli italiani le pensioni e le bonifiche: meriti del tutto immaginari, che tutt’oggi vengono ancora “riconosciuti” anche da molti non certo simpatizzanti. Andando a guardare ai fatti, salta fuori che le pensioni erano state introdotte tra il 1895 e il 1919, e anzi lo stivaluto abolì il ministero del lavoro e della previdenza in modo da poter «controllare qualsiasi forma di aiuto sociale, rendendo di fatto ogni prestazione dipendente dallo Stato, cioè dal partito» tramite l’INFPS che divenne un grande organo clientelare del fascismo. Quanto alle bonifiche, anche in questo caso si trattava di processi già in atto almeno dal 1878, gestiti poi nel solito modo dispendioso, fallimentare e favoritista proprio del fascismo. Date e numeri parlano da sé: basta avere la pazienza di scorrerli senza annoiarsi troppo – il libro, benché compatto, è molto denso di informazioni storiche.

La cosa che più colpisce in queste prime pagine è l’accento sul fascismo come grande sistema clientelare oltre che propagandistico, con l’obiettivo di «fare dell’enorme apparato amministrativo una macchina al servizio del fascismo, trasformandola in un bancomat di denaro pubblico e in un fornitore di posti di lavoro per le varie clientele… un ente costruttore di consenso più che di benessere e sicurezza per gli italiani». Troppo spesso pensiamo agli italiani come aderenti al fascismo per legittima paura da un lato o stolta convinzione dall’altro, quando invece la realtà è che moltissimi si riscoprirono fascisti per mera convenienza economica. Mettere in chiaro questo modus operandi del regime è indispensabile anche per non cadere in quell’altro torbido mito degli “italiani brava gente”: la maggior parte degli italiani furono conniventi non solo passivamente ma anche attivamente, salvo poi riscoprirsi partigiani quando per l’appiccato carogna ormai non vi era più nulla da fare.

I capitoli seguenti confutano il mito dello smargiasso costruttore di case popolari («il fascismo fu molto più interessato a progetti che avessero un impatto di propaganda sulla popolazione: le costruzioni pubbliche si concentrarono su funzioni soprattutto simboliche e cerimoniali»), del maramaldo amante della giustizia («la legalità è il più semplice rispetto delle norme vigenti… da questo punto di vista è evidente che il fascismo, in quanto movimento totalitario e distruttivo delle libertà individuali, è per definizione ingiusto»), del maccherone che rese gli italiani più ricchi («sotto il fascismo aumentò soprattutto la disuguaglianza sociale: la forbice tra la fetta più ricca della società e quella più povera si divaricò, e a una ristretta platea di superricchi, per lo più aderenti al fascismo, fece da contraltare la gran massa della popolazione»).

Negli ultimi capitoli diventa sempre più facile per Filippi smentire i miti del priapo femminista («in virtù del suo ruolo di procreatrice di nuovi giovani italiani… la figura della donna si trasformò sostanzialmente in quella di “fattrice”… tutte le azioni concrete portate avanti dal regime in questo campo partirono dal presupposto che le donne erano “grembi”, e non individui»), del mascelluto grande condottiero («in pratica il regime che per vent’anni aveva detto di attendere con ansia il decisivo scontro di civiltà tra la nuova ideologia fascista e le vecchie democrazie liberali si trovò a dover ammettere nel momento fatidico di non essere preparato») e addirittura del bombetta “dittatore buono”. «In pochi tutt’oggi sono disposti a paragonare il ventennio fascista ai dieci anni di terrore nazista»: a confronto con l’imbianchino austriaco, il sozzo nostro fa la figura del “good cop”, di quello che il razzismo se l’è accollato controvoglia (come no: questa è la parte della Sicilia che diede i natali a Telesio Interlandi, fondatore e direttore di quell’orrido giornaletto intitolato “La difesa della razza”…).

Giunto al termine capisco una volta di più che la storia va studiata per evitare che si ripeta: il problema è che essa ama riproporsi con differenze per meglio ingannarci. Tanti antifascisti oggi continuano a scagliarsi contro camicie nere, camerati commemoratori di Ramelli e altri sparuti scimuniti di estrema minoranza (immagina oggi cercare mafiosi in coppola e lupara…): intanto nuove forme più pervasive e subdole di fascismo avanzano con l’imposizione dall’alto e il sostegno dal basso (immagina i partigiani chiusi in casa a rispettare le leggi e onorare la memoria dei bei tempi andati…). Intere fasce di persone non hanno neanche il diritto basilare di muoversi come e dove vogliono: i più sfortunati vengono inghiottiti dal mare (ma pazienza, quelli sono di un’altra “cultura” e comunque portano varianti più mortali del nostro covid italico…), quelli della parte fortunata del mondo vengono più civilmente controllati e multati. Il sogno fascista – ma in fondo proprio di ogni potere – del controllo totale delle masse sta realizzandosi sotto i nostri occhi solo oggi, a quasi un secolo di distanza dai tentativi storici: la tecnologia adesso sì che è pronta.

(Pubblicato nel numero 415 di Sicilia Libertaria)

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Psicopatologia della politica contemporanea Psicopolitica (Byung-Chul Han, 2014)

«La libertà sarà stata un episodio»: come non adorare un libro che debutta in questo modo? E dire che già il titolo non era da meno: Psicopolitica, un libriccino di un centinaio di pagine – ma densissime – di Byung-Chul Han, autore che avevo presentato già qualche mese fa per il suo precedente La società della stanchezza. Han riesce a coniugare perfettamente la gravità della filosofia tedesca – Marx incluso – con la leggerezza della visione orientale della vita. Dopo qualche pagina si riesce a entrare nel suo lessico filosofico, che non è affatto oscuro come potrebbe sembrare a primo acchito. Nella prima pagina c’è già il leitmotiv di tutto il saggio: «L’io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione». C’è dentro il rantolo stressato dell’individuo che, estromesso dal mondo tradizionale del lavoro, è diventato «imprenditore di sé stesso» – quand’anche in realtà rider senza contratto… – economicamente precario eppure oberato lavorativamente.

Questo andazzo sociale così deprimente è determinato dal sistema economico-politico in cui volenti o nolenti viviamo. «Il neoliberalismo, come mutazione del capitalismo, fa del lavoratore un imprenditore. Non la rivoluzione comunista, bensì il neoliberalismo elimina la classe operaia che è sfruttata da altri. Oggi, ciascuno è un lavoratore che sfrutta sé stesso per la propria impresa. Ognuno è padrone e servo in un’unica persona». I vecchi ma sempre attuali discorsi marxisti di lotta di classe diventano obsoleti nel momento in cui sfruttatore e sfruttato confluiscono nella medesima persona in una dialettica di sintesi tra padrone e schiavo – «imprenditore», eppure meno che proletario. Purtroppo questa libertà è fittizia: se in teoria non si è assoggettati a un padrone, in pratica si è sottomessi a un sistema stritolatore. «Il soggetto di prestazione, che si crede libero, è in realtà un servo: è un servo assoluto nella misura in cui sfrutta sé stesso senza un padrone. Il soggetto assolutizza la nuda vita e lavora. Nuda vita e lavoro sono due facce di una stessa medaglia: la salute rappresenta l’ideale della nuda vita». (Devo ricordarmi di parlare di Agamben prima o poi…).

A forgiare questo soggetto passivo contribuisce anche la tecnologia, incarnata da smartphone e social media. Han era già lucidissimo e profetico sette anni fa; ora è tutto ancora più esacerbato. «La libertà e la comunicazione illimitate si rovesciano in controllo e sorveglianza totali. Anche i social media assomigliano sempre più a panottici digitali, che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano senza pietà»: quel che è peggio è che divulghiamo i nostri dati non per costrizione ma per volontà, blandita dallo zuccherino del like. «Il potere intelligente, dall’aspetto liberale, benevolo, che invoglia e seduce, è più efficace del potere che ordina, minaccia e prescrive. Il like è il suo segno: mentre consumiamo e comunichiamo, anzi mentre clicchiamo like, ci sottomettiamo al rapporto di dominio». Lo smartphone, lungi dall’essere un oggetto neutro, è la chiave di volta del sistema, al contempo camera di tortura dal volto benevolo e «oggetto devozionale del digitale». Non mi vergogno ad ammettere di esserne assuefatto anch’io, come tutti; ma sempre più m’imbarazzo nel tenerlo in mano, specie vedendo come mio figlio a tre anni mi scimmiotta già…

Le conseguenze politiche del sistema neoliberale sul soggetto sottomesso sono ancora più gravi, tali da renderlo passivo e imbelle. «Il neoliberalismo fa del cittadino un consumatore. La libertà del cittadino cede alla passività del consumatore. L’elettore in quanto consumatore non ha, oggi, alcun reale interesse per la politica, per la costruzione attiva della comunità. Non è disposto a un comune agire politico e neppure ne è capace: reagisce solo passivamente alla politica, criticando, lamentandosi, proprio come fa il consumatore di fronte a prodotti o a servizi che non gli piacciono. Anche i politici e i partiti seguono la logica del consumo: devono fornire. Perciò, si presentano essi stessi come fornitori, che devono soddisfare gli elettori intesi come consumatori o clienti». Il potere «invece di rendere docili gli uomini, cerca di renderli dipendenti»: anzi li rende docili proprio rendendoli dipendenti, e al contempo facendoli sentire personalmente responsabili del «fallimento» della propria attività economica (sempre più regolamentata dal potere) o del proprio progetto di vita…

Il quadro delineato è sconsolante, è vero. «Ci si sente davvero liberi soltanto in una relazione soddisfacente, in un felice essere-insieme all’altro. L’isolamento totale a cui conduce il regime neoliberale non ci rende davvero liberi». A volte penso che solo in questo nuovo maledetto decennio i tempi erano maturi affinché si compisse quello che ci stanno perpetrando. La divisione sociale sulla base della paura dell’altro è la fonte di potere più grande e più antica che esista (divide et impera). Le relazioni umane mediate dagli smartphone non sono un «meglio di niente»: sono un’aberrazione, punto – e chi mi conosce sa che ne faccio volentieri e talvolta cafonamente a meno. «La psicopolitica neoliberale è la tecnica di dominio che, per mezzo della programmazione e del controllo psicologico, stabilizza e perpetua il sistema dominante». Porre schermi e barriere tra noi e gli altri è il modo migliore per disgregare sul nascere ogni unione, ogni forza, ogni tentativo di ribellione o anche solo di pensiero critico verso il dominio. «La psicopolitica neoliberale s’impossessa dell’emozione, così da influenzare le azioni proprio sul piano pre-riflessivo. Attraverso l’emozione, s’insinua in profondità nella persona e rappresenta, di conseguenza, un medium estremamente efficace del controllo psicopolitico dell’individuo». Teniamolo a mente ogni volta che qualche emozione ci viene indotta dall’esterno e anzi calata dall’alto.

(Pubblicato nel numero 414 di Sicilia Libertaria)

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Basta che c’è la salute Nemesi medica (Ivan Illich, 1976)

Un anno fa iniziava l’inimmaginabile che ha travolto le nostre vite. All’inizio non ci capivamo molto: ci siamo chiusi a casa increduli ma comprensivi, e abbiamo messo da parte ogni spirito critico perché di fronte alla morte non c’è niente da dire; ora, dopo dodici mesi, credo sia il caso di osare qualche riflessione che vada oltre il semplicistico e terroristico discorso medico a reti unificate. Ho finalmente letto Nemesi medica di Ivan Illich, un libro finora tralasciato di un autore che ho sempre apprezzato. Si tratta di un’opera complessa, e parlarne in queste poche righe significherà necessariamente ridurla e semplificarla oltremodo; proverò comunque a gettare giù alcuni appunti e spunti di riflessione.

Anzitutto il concetto di salute, che quest’ultimo anno è diventato del tutto manicheo – o sei negativo e stai bene, o sei positivo e stai male. L’effettiva condizione clinica viene bypassata: il medico tradizionale è stato sostituito da questi candidi burocrati del tampone e dispensatori di certificati; con la scusa che anche i cosiddetti asintomatici potrebbero essere untori si è tolto ogni riferimento al corpo nella sua complessa relazione con l’ambiente naturale e sociale. In realtà la salute è qualcosa di più, ed è «definita dallo stile con cui ciascuna società si esprime nell’arte di vivere, di far festa, di soffrire e di morire»: di conseguenza «la cura della salute… è sempre in primo luogo un programma di regole per mangiare, bere, lavorare, respirare, far l’amore, far politica, far ginnastica, cantare, sognare». Cose che ci sono state vietate, impedite o pesantemente regolamentate: i nostri sistemi immunitari non possono non risentirne…

Nella sua visione olistica Illich si preoccupa molto dell’ambiente in cui viviamo. Ci sono parecchie evidenze che il covid colpisce più duramente nei luoghi più inquinati, deturpati e (ça va sans dire) sovrappopolati del pianeta. «Gli individui sani sono quelli che vivono in case sane con un’alimentazione sana in un ambiente parimenti adatto per nascere, crescere, lavorare, guarire e morire; sono sorretti da una cultura che favorisce l’accettazione consapevole di una limitazione demografica, della vecchiaia, del ristabilimento incompleto e della morte sempre incombente». Ora, è vero che molti malanni possono colpire anche a scapito dello stile di vita adottato (è pure una questione di lotteria genetica…); tuttavia glissare su questo senso allargato della salute mi sembra non solo riduttivo ma anche assolutorio nei confronti di politiche ambientali e alimentari volte unicamente al profitto di pochi anziché al benessere di tutti. Ricordiamo infatti che le principali comorbilità nei morti da covid, di cui si parla troppo poco, sono malattie croniche derivanti da un ambiente corrotto o dalla cattiva alimentazione che ormai abbiamo accettato come inevitabili…

Quest’opera di Illich si impernia soprattutto su un concetto poco noto al grande pubblico, quello di iatrogenesi, che si riferisce ai danni indesiderati causati da farmaci, medici e ospedali – tra qualche anno ci sarà più chiaro l’ammontare di morti dovuto a terapie erronee, soprattutto durante la prima ondata, giustificato solo in parte dalla novità della malattia. A questo tipo di iatrogenesi se ne affianca un’altra di natura sociale che «insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili, generando nuovi bisogni dolorosi, abbassando i livelli di sopportazione del disagio o del dolore, riducendo il margine di tolleranza che si usa concedere all’individuo che soffre, e addirittura abolendo il diritto di autosalvaguardarsi». Mi chiedo spesso cosa farei se scoprissi di essere contagiato (ammesso che non lo sia già stato nel febbraio dello scorso anno, visto una brutta influenza che ho avuto seguita da due settimane di tosse secca e persistente…) e credo proprio che mi terrei alla larga dagli ospedali se non in caso di estrema necessità – come ho sempre fatto finora, del resto…

Altro concetto su cui insiste Illich è quello di monopolio radicale medico, che secondo lui è addirittura più pervasivo di quello governativo: «quando l’ospedale diviene il centro di raccolta obbligato di tutti quelli che si trovano in condizioni critiche, impone alla società una nuova forma di agonia. I monopoli comuni si accaparrano il mercato; i monopoli radicali rendono la gente incapace di fare da sé». Peggio ancora: «la medicina iatrogena rafforza una società morbosa nella quale il controllo sociale della popolazione da parte del sistema medico diventa un’attività economica fondamentale; serve a legittimare ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi». Questo aspetto di controllo totale è ciò che più mi ha inquietato in questi mesi. Nessuna possibilità di autodiagnosi, dunque nessuna fiducia nell’altro se non il medico e il politico; anzi «l’individuo è subordinato alle superiori “esigenze” del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch’egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo la società permettersi il peso d’interventi curativi che sarebbero ancora più costosi». Copione già visto…

Ma ciò per cui sono più grato a Illich è la luce gettata sulla medicalizzazione della morte, argomento oggi del tutto tabù. Resto convinto che la diffusa rimozione della morte sotto forma di ospedalizzazione terminale degli anziani sia tra i motivi principali del tracollo del sistema ospedaliero, già carente di suo e ritrovatosi ad avere a che fare con una questione bioetica cattolicamente mai risolta – ricordiamo che l’età media dei morti per covid è la stessa dell’aspettativa di vita. «La medicalizzazione dà luogo a un prolifico programma burocratico basato sull’idea che non occorra affatto che ciascuno affronti personalmente il dolore, la malattia e la morte». Il problema è democratico: «la morte a tempo debito accompagnata dai relativi sintomi clinici divenne l’ideale della medicina borghese, e presto sarebbe entrata a far parte delle aspirazioni dei sindacati… È nel nostro secolo che la morte del valetudinario tra cure prestate da medici specialisti viene considerata per la prima volta un diritto civile». Diritto che oggi confligge con mille altri che sono stati sacrificati…

Chiudo con le ultime parole di Illich che tralascerò di commentare ma che danno l’idea delle conseguenze della nostra mancata accettazione della morte. «Questa nuova immagine della morte giustifica nuovi livelli di controllo sociale. La società è diventata responsabile d’impedire la morte di ogni suo membro; l’intervento terapeutico, efficace o meno, può mutarsi in un dovere… Con la medicalizzazione della morte l’assistenza sanitaria è diventata una religione mondiale monolitica». E per finire, «la morte approvata dalla società è quella che avviene quando l’uomo è diventato inutile non solo come produttore ma anche come consumatore».

(Pubblicato nel numero 413 di Sicilia Libertaria)

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