Il lavoro è finito La fine del lavoro di Jeremy Rifkin

Credo di avere una visione particolarmente tragica del lavoro. Sarà un effetto collaterale della mia formazione, che mi ha tenuto giocoforza lontano dallo “sbocco” lavorativo; sarà una conseguenza del mio disincantato guardarmi attorno, e notare che per gli altri non va poi tanto meglio. Giovani o meno giovani, laureati o no, il lavoro non è più una certezza: il “posto” è sempre meno fisso e garantito; i suoi surrogati – unica strada percorribile per tanti della mia generazione e non solo – sempre più umilianti, ammesso che se ne trovino (anche per “lavorare” in un call-center occorre una raccomandazione!).

Call center

Facile sarebbe dare, anche stavolta, la colpa al governo, o pretendere che sia lo Stato a doverci “sistemare”: appurato che l’impiego statale è interdetto ai più e riservato a un’élite che dovremmo tirar giù, bisogna capire che la realtà è più complessa, più grave. Così ho ripreso in mano un’opera dal titolo emblematico, La fine del lavoro (Mondadori 2002). L’autore, Jeremy Rifkin (noto attivista oltre che economista), già nel 1995 vi tratteggiava cosa sarebbe avvenuto all’inizio del nuovo secolo (il sottotitolo del libro parla chiaro: «Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato»).

Jeremy Rifkin

La tesi centrale dell’opera, sviscerata in oltre quattrocento pagine, è che nei processi produttivi le macchine sostituiranno sempre più l’uomo, il quale rimarrà senza lavoro – perlomeno senza lavoro quale attualmente lo conosciamo. Rifkin profetizza che entro questo secolo «il lavoro “di massa” nell’economia di mercato verrà probabilmente cancellato in quasi tutte le nazioni industrializzate del mondo». Oggi vediamo distintamente tale processo in atto: chi ha un lavoro se lo tiene ben stretto, subendo condizioni vessatorie e sopportando l’aleggiare del licenziamento; gli altri – chi è entrato da poco nel cosiddetto “mercato del lavoro”, o chi è stato licenziato – stentano a trovare un’occupazione dignitosa. Tutti fenomeni di cui negli USA si vedevano le prime avvisaglie già negli anni ’90.

End of work

Qualche tempo fa, le fantasie di un mondo liberato dal lavoro erano radiose, e splendida appariva la visione di un mondo immerso nell’utopia tecnologica. Oggi risaltano più le tinte fosche: la crescente disparità tra ricchi e poveri, la guerra tra i meno abbienti, la fatica delle famiglie ad arrivare a fine mese. Eppure non è la prima volta nella storia che l’umanità – almeno quella del mondo “occidentale” – attraversa una simile crisi. È avvenuto ad ogni rivoluzione industriale, tutte accompagnate da un crollo dell’occupazione nei settori tradizionali e un reimpiego spesso traumatico in nuovi settori. Il problema è che quest’ultima “rivoluzione” telematica richiede sempre meno lavoratori, e sempre più specializzati per giunta. La possibilità di riaddestrarsi, o di essere riassorbiti in piani di previdenza sociale, è sempre più remota. D’altro canto né le aziende né molti lavoratori sono disposti a “rimodulare” gli impieghi (“Lavorare meno per lavorare tutti”). Su tutto, incombe la folle corsa al profitto, all’iperproduzione e al consumismo, che ci fanno intuire come l’uomo sia ancor meno razionale di quanto saremmo disposti a concedere.

Work buy consume die

Che fare, allora, visto che è declinata non solo la domanda di agricoltori e di operai, ma ormai anche quella degli addetti ai servizi? Le soluzioni, tanto urgenti quanto necessarie, vengono proposte dall’autore tutte nell’ultima parte del libro. La prima comporta il “re-engineering” della settimana lavorativa. Secondo Rifkin sarà inevitabile ridurre l’orario lavorativo a 30, o perfino 20 ore settimanali. Ciò, è vero, comporterà una diminuzione degli stipendi, ma anche meno disoccupazione generale e una divisione più equa del lavoro all’interno della società e anche delle stesse famiglie. Purtroppo oggi le aziende preferiscono torchiare quei dipendenti che hanno già piuttosto che cercarne di nuovi per un vero part-time…

Lavoro part-time

La seconda soluzione è più generale e mira a ristabilire un “nuovo contratto sociale”, considerato che «la sostituzione massiccia del lavoro umano con quello delle macchine lascia la massa lavoratrice priva di un’autodefinizione e di una funzione sociale». È qui che Rifkin si rivela più propositivo e lungimirante – nonché più anarchico. Basti leggere questo periodo (e incorniciarselo bene in mente): «Oggi – con il settore commerciale e quello pubblico che non sono più in grado di garantire alcuni dei bisogni fondamentali della gente – i cittadini hanno la possibilità di ricominciare a guardare a sé stessi, ristabilendo uno spirito comunitario che possa fungere da ammortizzatore tanto delle forze impersonali del mercato globale, quanto dell’incompetenza e della debolezza delle autorità di governo centrale». Rifkin auspica «la ricostruzione di migliaia di comunità locali e la creazione di una terza forza che riesca a sopravvivere indipendente dal privato e dal pubblico». Dovremmo insomma impegnarci in questo “terzo settore” che sta tra il pubblico/Stato e il privato/mercato, pur essendo ben distante da entrambe queste funeste realtà. Rifkin stesso – al di là dell’esortazione a fondare enclave libertarie – pensa che un governo realmente democratico dovrebbe stimolare il volontarismo, riconoscendolo e incentivandolo.

Esodata

Certo, non è semplice parlare di simili argomenti. C’è sempre lo spauracchio “da dove prendere i soldi” (chi però ne è ossessionato dimentica che potremmo provvedere autosufficientemente a buona parte dei nostri bisogni nell’ambito di piccole e funzionali comunità…). Resta poi il problema di cosa fare con gli “esodati”, ai quali simili discorsi possono apparire semplicemente inconcepibili… Sono dilemmi complessi, e non è agevole trattarli in poche righe. Proviamo nondimeno a chiudere, sulla scorta di Rifkin, con uno spiraglio di speranza. «La fine del lavoro potrà pronunciare la sentenza di morte della nostra civiltà o dare il segnale di partenza di una grande trasformazione, di una rinascita dello spirito umano. Il futuro è nelle nostre mani».

(Recensione anarchica pubblicata nel numero 323 di Sicilia Libertaria).

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