Sporchi come la terra Voi li chiamate clandestini di Laura Galesi e Antonello Mangano

È giunta l’estate, anche quest’anno non senza averci fatto esclamare svariate volte che ‘non ci sono più le mezze stagioni’. Purtroppo nessuno sembra rendersi conto che da qualche tempo non esistono più le stagioni tout court, quelle scandite dai cicli della natura ben conosciuti dai contadini coi loro immutabili ritmi legati alla semina e al raccolto… Quadretto idilliaco d’altri tempi; ma scattiamo una fredda istantanea: oggi possiamo trovare i pomodori di Pachino ben ordinati nelle vaschette tutte uguali sui banchi di qualsiasi ipermercato tutto l’anno, non solo in estate. Com’è possibile ciò?

La risposta immediata e immeditata è: ‘grazie alle serre’. La domanda dunque si trasforma: cosa accade dentro – e dietro – quelle serre? Ce lo descrivono Laura Galesi e Antonello Mangano in Voi li chiamate clandestini (Manifestolibri 2010), un’indagine sul campo su come vengono prodotti i cibi che mangiamo, un «viaggio nell’agricoltura meridionale, tra mafia e capolarato» che si snoda da Foggia a Vittoria, passando per Rosarno e Cassibile.

Cominciamo dalle terre prossime, dalle vicine serre del ciliegino – varietà di pomodoro che si fregia del marchio IGP pur essendo stato geneticamente selezionato in Israele. I suoi semi, peraltro coperti da brevetto, non si possono ripiantare (il ciliegino è un ibrido di prima generazione, pertanto alla seconda si perderebbero i suoi caratteri peculiari), perciò occorre ricomprarli ogni anno dalle multinazionali delle sementi. Non è esattamente quello che ci aspetteremmo dall’agricoltura ‘tradizionale’; tuttavia non è la cosa peggiore che accade nella filiera dei nostri cari pomodorini. Il loro trasporto, infatti, avviene esclusivamente su gomma (chi pratica la Ragusa-Catania è ormai abituato e rassegnato alle file interminabili e perigliose di Tir); il tutto è gestito dallo stesso racket che impone che i pomodori vengano trasportati fino a Latina per venire confezionati e dunque ridistribuiti e venduti al dettaglio – anche nel ragusano, dopo 1600 km di viaggio utile solo a ingrassare le mafie e gabbare i consumatori (alla faccia degli illusi che credono che basti acquistare prodotti locali per promuovere la spesa ‘a chilometro zero’…). Eppure non è ancora questo il peggio: il dramma è che «i prodotti che fanno la dieta mediterranea arrivano da situazioni di sfruttamento che solitamente associamo al Terzo Mondo, ma che invece sono presenti a casa nostra».

Voi li chiamate clandestini

«Esiste un lavoro sporco, materiale, antico che non vediamo e che rappresenta la base produttiva dell’agroalimentare italiano. Non vogliamo vederlo perché è praticato da una classe di lavoratori in condizione para-schiavistica: per la precisione i migranti, in particolare quelli senza documenti». Quelli che la televisione, appendice del potere dei Palazzi, ci ha insegnato a chiamare ‘clandestini’, o addirittura ‘terroristi’ – quei poveri che restano celati sgobbando celeri tra terra e polveri; quegli affamati che faticano invisibili per permetterci di avere sulle nostre tavole pomodori perfetti, arance succulente, turgide angurie, pregiati vini DOC. Veri e propri schiavi che non possono reclamare alcun diritto – non gliene viene riconosciuto nessuno – e sono impunemente sfruttati, malpagati o non pagati affatto (tanto a fine stagione la Polizia organizza retate provvidenziali per i padroni…). Ecco la base, anzi il fondo dell’economia italiana.

Questi esseri umani sono resi reietti da leggi liberticide col beneplacito dello Stato e a favore degli imprenditori. L’uomo è nulla più che un mulo da soma (i rifugi dei derelitti sono capannoni in disuso, inabitabili e sprovvisti di servizi igienici; alla legittima richiesta della paga già misera si vedono rispondere sovente con bastonate); la donna una puledra da monta (a Vittoria sono in aumento gli aborti delle donne straniere, costrette a prostituirsi dai e per i padroni; a Caltanissetta la bellezza è il criterio con cui vengono selezionate le aspiranti lavoratrici; a Foggia l’aspirante bracciante deve portare in cambio una ‘amica’). Solo tenendo in mente la ricattabilità dei migranti ‘irregolari’ e la propaganda razzista del Governo si comprende come tutto ciò sia possibile; d’altro canto la richiesta di manodopera a bassissimo costo, vera e propria base del sistema agricolo nostrano e indispensabile per profitti illeciti, spiega la farsa delle tendopoli nelle terre dei perini e del Primitivo e dà conto di questo ipocrita atteggiamento verso i migranti – tollerati solo se muti e servi.

In questo nuovo schiavismo siamo implicati tutti, dato che i prodotti coltivati in quelle condizioni arrivano sulle nostre tavole. Qualcuno poi ha più d’un interesse acciocché tutto rimanga com’è: «i proprietari delle aziende fanno lavorare in nero i migranti senza versare i contributi che, invece, vengono sistematicamente venduti ai falsi braccianti agricoli… Morale: gli italiani, senza stare nei campi, avranno l’indennità previdenziale. Un processo in cui ci guadagnano tutti, tranne i migranti. L’azienda passa per quella che paga i contributi, il falso bracciante percepisce l’indennità di disoccupazione agricola; lo straniero, invece, continua a lavorare in nero e senza tutele». Storia vecchia…

Maggiori dettagli sulle vessazioni che devono subire i migranti attenderanno i lettori del libro. Un solo appunto: gli autori sostengono che «il consumatore e il bracciante sono gli ultimi anelli – quelli più deboli – su cui scaricare le storture del sistema». In realtà non si avvedono che purtroppo è anche l’atteggiamento del consumatore a favorire l’insorgere di situazioni del genere – degeneri. Dimentichiamo troppo spesso il nostro potere decisionale. Siamo costantemente abbindolati, è vero; eppure basterebbe rinunciare all’agricoltura industriale e provare a coltivare da sé gli ortaggi o, se non si possiede un pezzo di terra ma solo cemento a cui si tiene troppo, almeno acquistare presso i GAS, i gruppi d’acquisto solidale che cercano di rifuggire dalle logiche capitalistiche.

(Recensione anarchica pubblicata nel numero 307 di Sicilia Libertaria).

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