Quattro parole sul governo Della misantropia di Manlio Sgalambro

Stavolta, più che una recensione, stilerò una serie di note a margine: si può, del resto, propriamente recensire un’opera filosofica? Il filosofo in questione è il siculo Manlio Sgalambro; il suo ultimo libro è Della misantropia (Adelphi 2012).

Certo, ci vuole una bella faccia tosta a proporre un’opera con un simile titolo tra pagine che parlano di fraternità e solidarietà. Ma primo, la misantropia di Sgalambro è assoluta e rivolta non solo agli altri, ma anzitutto («immediatamente») a sé stesso; secondo, in senso relativo ognuno di noi non può non dirsi almeno parzialmente misantropo (penso di condividere con tutti i lettori la scarsa empatia verso i faccioni che occhieggiano in queste settimane dalle nostre mura cittadine…). Non è di questo però che voglio parlare, bensì dell’ultimo breve saggio che conclude l’opera, intitolato “De gubernatione”. Anzi, lasciamo parlare Sgalambro prima di glossarlo.

«È cessata nel frattempo anche la ricerca della società migliore… seppellita dalle rovine di quella società in cui la società migliore avrebbe dovuto fare la sua comparsa». Sgalambro è sempre stato pessimista, come e più di Schopenhauer e di Cioran; la morte incombente non ha fatto altro che disilluderlo definitivamente. Riconosce però l’utopia almeno come genere letterario, e ne lamenta la sparizione. La società è in rovina perché non sa immaginarsi diversa, o forse solo perché, come sostiene Sgalambro in apertura del saggio, si è dissolta nel suo governo; si ha l’impressione che si possa ormai al più raccogliere i cocci per tirare avanti ancora un po’… Impressione fatale alla società tanto quanto funzionale ai governi.

«Credo anch’io che ciò che rese possibile la religione rende oggi necessaria la politica. (S’intende, di quella necessità di cui però avvertiamo il peso e la stupidità). Sono gli esseri dappoco che hanno bisogno della politica, così come un tempo ebbero bisogno della religione». Sgalambro non ha mai tentato di nascondere il suo punto di vista “aristocratico”, da ottimate del pensiero. Possiamo pure pensare che religione e politica vadano avanti per colpa del “sistema”, ma come potremmo negare la responsabilità individuale di chi tale sistema lo sostiene quotidianamente? Forse è questione di educazione, diremmo; oggi, però, chi predica in senso antipolitico, o meglio antigovernativo – una cosa che gli anarchici sanno fare bene da tempo – lo fa col solo obiettivo di sostituirsi a quella classe politica corrotta, a quel governo marcio. Come se ce ne fosse ancora bisogno; come se un governo potesse non essere ladro.

«Sono governato dal peggiore concetto di governo possibile. Questo governo, di cui trionfa il concetto, ogni giorno fa avvertire la sua esistenza, ogni giorno parla di sé e si rende visibile in tutti i modi. Elogia quotidianamente le sue attività e le funzioni in cui si estrinseca il suo essere in maniera indecorosa. Come se si potesse ammirare un individuo che si vantasse ogni giorno delle sue funzioni corporee». Forse Sgalambro si accontenterebbe di un governo invisibile, o almeno “nobile” ed elegante; probabilmente è urtato dal colossale dispiegamento mediatico proprio di anni in cui la campagna elettorale è diventata permanente – benché l’elettore venga ancora chiamato ad “esprimersi” appena una volta al lustro. Ma già Battiato, parecchi anni prima dell’incontro col filosofo, lamentava le «rubriche aperte sui peli del papa». Devo dedurre che la televisione è sempre stata la feccia che è oggi? Qualcuno che negli anni ottanta c’è vissuto, piuttosto che nato, mi illumini.

«Un punto indiscusso è infatti che tu debba essere governato. Bisogna quindi riportare questo industrioso concetto a ognuno di noi che ne formiamo l’oggetto, e chiedere se ci riteniamo veramente tanto inferiori e incapaci. Chi di noi direbbe: “Io voglio essere governato”? Insomma, se gruppi di miserabili gridano “vogliamo un governo”, in realtà, presi individualmente, nessuno di loro vorrebbe essere governato. Vorremmo solo amministratori del nostro comune patrimonio, che i politici chiamano “società” per meglio impadronirsene». Cosa aggiungere? Qua l’aristocraticismo di Sgalambro sembra stemperarsi in un anarchismo individualista originario, subito corrotto dall’emergere di “gruppi”. Resto ancora convinto che il problema principale è dato dalla dimensione assunta da questi gruppi, benché anche in quelli piccoli mi faccia agghiacciare chi pretende la presenza di un direttore – fino ad arrivare a quegli onnipresenti “direttori artistici” che ognuno di noi ha avuto modo di incontrare almeno una volta nella sua vita.

«Se io nego di poter essere rappresentato dal politico è perché la classe politica non può che rappresentare “l’uomo” al punto più basso di tale nozione. A quest’ultimo va tutta la mia commiserazione». Bene, forse l’uomo al nadir non esiste veramente; forse è solo dato dall’intersezione di tutte le cose che ci accomunano – la necessità del panem e il desiderio di circenses. Riusciremo mai a guardare un poco oltre codesto substrato, cercando altre comunanze meno avvilenti? Ma in ogni caso, «per gli officianti della politica noi siamo anime morte. Possiamo parlare solo attraverso di loro. (Ma la politica e i suoi sacerdoti aspirano a farci anche pensare attraverso di loro). Essi sono come imbuti attraverso cui passano i nostri lamenti già trasformati in liete marcette». Colpa di chi ha ben pensato che i suddetti officianti potessero “rappresentarci” – stando al posto nostro. Il governo è la giusta punizione per chi crede che delegare è meglio che occuparsi in prima persona dei propri affari.

«Che io sia non basta, devo avermi. L’impresa di questo essere che dice “io” è dunque quella di possedersi. Per essere quell’unico che egli è deve diventare la sua proprietà. (Il che mi ricorda qualcuno, ma è bene trarre tutto dalla propria mente, così come lo si trova, e non ornarlo di nomi)». Finalmente in chiusura capiamo che quello che abbiamo scambiato per aristocraticismo altro non era che stirnerismo.

(Recensione anarchica pubblicata nel numero 321 di Sicilia Libertaria).

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