Compatire i competenti Radical choc (Raffaele Alberto Ventura, 2020)

Nei giorni della quarantena indiscriminata, mentre leggevo e scrivevo e m’angosciavo, mi chiedevo in quanti libri prossimi venturi avrebbe fatto capolino la pandemia che stiamo vivendo. Ebbene: Radical choc di Raffaele Alberto Ventura (Eschaton per gli internauti) è il primo della serie che leggo. (È anche il primo libro che leggo pubblicato quest’anno, incidentalmente…).

In realtà questo libro era nel bel mezzo della stesura già un anno fa, quando il mondo era un posto più lieto che ora: il coronavirus fa capolino all’inizio, nel capitolo zero, e serpeggia qua e là, come aggiunta postuma ma non posticcia, perché Radical choc tratta dei competenti – funzionari, scienziati, intellettuali, manager: quella classe di mezzo che una volta era borghesia e oggi è una sorta di élite della conoscenza, ma una élite ormai in decadenza, non così elitaria e nemmeno tanto competente a dirla tutta. Purtroppo nel nome della competenza viene giustificata ogni sorta di misura anche drastica, per cui «è lecito chiedersi come, quando e perché abbiamo delegato così tanto potere sulle nostre vite. Ma soprattutto: a chi lo abbiamo delegato?». Inoltre, nel momento in cui ci rendiamo conto che i competenti possono mandarci in rovina, sorge una nuova questione: «a cosa servono le élite nel momento in cui non riescono più a mantenere le loro promesse?».

A questo punto parte lo spiegone sul come e perché viviamo in una società in cui non riusciamo a fare a meno dei competenti: prendendo le mosse da Hobbes e dall’ascesa degli stati assoluti nel seicento – o più indietro da Ibn Khaldūn e dall’epidemia di peste nera del trecento – Ventura argomenta sulla complessità della società attuale e del suo sistema capitalistico-tecnologico che «produce degli individui dipendenti dalla tecnologia e dagli esperti»: alla fine «tutti dipendiamo indirettamente dal modo di produzione che genera la ricchezza necessaria per finanziare la tecnostruttura che ci tiene in vita». Il problema è che la tecnologia sorge per risolvere problemi – per aumentare la sicurezza, sommo bene per Hobbes e per l’umanità tutta, e diminuire i rischi – ma finisce col causare altri problemi (Illich parlerebbe di effetti iatrogeni).

«Il problema, a monte, è che la nostra società produce troppi rischi: non soltanto non possiamo prevederli tutti, ma ogni azione o non-azione ne produce di nuovi». Dalla guerra al terrorismo alle misure contro il coronavirus, il mondo in cui viviamo – almeno quello occidentale bianco e benestante – è sempre in allerta per tenerci al sicuro: ma quanto ci riesce veramente? «C’è anche un rischio nel volerci proteggere da tutti i rischi»: questo rischio è dato da un rapporto costi-benefici spesso ormai svantaggioso – per evitare forse una decina di casi di covid si fa indossare la mascherina giorno e notte all’aperto a cinque milioni di siciliani. Questi diktat, che tendiamo ad attribuire ai politici, in realtà vengono da quella classe di competenti che «indicano le opzioni più razionali in ogni campo». I risultati ottenuti sono però ormai così scarsi che non dobbiamo stupirci se ovunque sono in ascesa movimenti populisti, antielitisti e troppo frettolosamente bollati come di ignoranti che declamano che non ce n’è coviddi. La verità è che «ci troviamo continuamente posti sotto al ricatto della sicurezza», e chi manifesta anche solo un minimo di dissenso viene tacciato come folle, stolto o minus habens soprattutto da quell’élite (pseudo)culturale sinistrorsa che a ben vedere appartiene proprio all’area dei cosiddetti competenti, o sgomita per farne parte…

In realtà, secondo Ventura e con lui una sfilza di studiosi più o meno famosi citati a man bassa nelle note del libro, ci troveremmo nel bel mezzo di una crisi del sistema capitalistico-tecnologico, dovuta non tanto alle sue pecche sempre più evidenti ormai a chiunque, quanto ai suoi rendimenti decrescenti: le promesse di benessere per tutti non vengono più mantenute, ergo il capitalismo, e con esso la sua pletora di competenti, non trova più la sua legittimazione. Dopo mezzo secolo dalle critiche sessantottine – pensiamo alla scuola di Francoforte, a Debord, a Foucault… – è ora di guardare in faccia la realtà che appariva ben chiara già allora: «la minaccia è solo rimandata: se il sistema assorbe gli choc e appare impossibile da rivoluzionare nonostante un ampio mandato elettorale, le nuove crisi continueranno a fargli subire colpi sempre più violenti». A risultare esiziale per il sistema sarà la discrepanza e la distanza tra centro e periferia – tra dominanti e dominati, in altre parole: «se consideriamo l’ordine politico moderno come un rapporto di scambio ineguale tra un Centro dove si concentra il capitale-competenza e una Periferia che fornisce il lavoro materiale, allora tale rapporto entra in crisi nel momento in cui lo scambio non viene più ritenuto vantaggioso».

Bene: abbiamo capito che Ventura è un altro profeta apocalittico. Si è fatto conoscere qualche anno fa per essere il cantore della “classe disagiata”, quella degli intellettuali che non trovano spazio nell’élite culturale non necessariamente perché non sono meritevoli, ma semplicemente perché sono troppi. Oggi tuttavia di fatto è abbastanza integrato: pur non essendo un accademico ha scritto un saggio sui competenti con competenza, pubblicato dall’Einaudi per giunta, ed è un saggio filosofico in senso pieno, che non si limita a una visione ristretta da cattedratico iperspecializzato (quei competenti di nicchia che abbiamo imparato ad aborrire…) ma mette insieme sociologia, economia, politica e storia, nonché citazioni da fumetti, romanzi e cinema che fa tanto pop e tiene desta l’attenzione del lettore ormai sempre più distratto. Al di là dell’hype da marketing in cui RAV è bravo almeno come nello scrivere, il libro merita anche solo per la conclusione che «il meccanismo della competenza, per come è concepito oggi, è una fondamentale fonte di ineguaglianza e di fragilità sistemica». Ricordiamocelo ogni volta che cianciamo di meritocrazia.

(Pubblicato nel numero 408 di Sicilia Libertaria)

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Svelare e smascherare, sempre Leggere Lolita a Teheran (Azar Nafisi, 2003)

Ci sono estati più deprimenti del solito: questa del 2020 ne è un buon esempio. Il tempo si protrae e si sfilaccia nella attesa – della fine della canicola, dei proclami politici e delle reazioni viscerali fatte passare per “ragionevoli”. Frattanto io resto rinchiuso volontariamente a casa a faticare: ho sempre detestato agosto, mi sono sempre tenuto lontano da ciò che ora va di moda chiamare “assembramenti” ma che per me era sempre stata folle folla estiva. Tempo per leggere ne ho avuto poco, voglia anche meno: ho comunque finalmente recuperato una lettura che avrei dovuto fare da tempo, Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi (pubblicato per la prima volta in Italia sedici anni fa per i tipi dell’Adelphi).

Avrei dovuto leggerlo anni fa appunto, quando mi sarei indignato “solo” per il regime instauratosi dopo quella che in Iran hanno osato chiamare “rivoluzione”. Letto oggi mi ha fatto montare la nausea per qualsiasi regime, senza distinzione alcuna. Sì: compresi i regimi cosiddetti “democratici”. È giusto così? Mi dicono che non ci possiamo paragonare a situazioni davvero gravi. Ma l’autrice, una coraggiosa professoressa di letteratura che continuò a insegnare clandestinamente anche sotto la censura del regime, è la prima ad ammettere che non le era di nessuna consolazione pensare che c’era qualcuno che stava peggio di lei.

L’intero libro è una nitida fotografia dell’ascesa di un regime, con le sue smanie di controllo e pretese di obbedienza che passano soprattutto attraverso l’ostentazione e imposizione di simboli. Il simbolo principale e più noto di quel regime è il velo che tutte le donne devono indossare in luoghi pubblici. Ora, la mia personale ermeneutica postpandemica ha fatto sì che leggessi buona parte del libro alla luce dell’obbligo delle mascherine. Che saranno pure parzialmente utili, ma non più di un velo imposto a suon di minacce. «Il problema non era il velo in quanto tale, ma la libertà di scelta. Mia nonna si era rifiutata di uscire di casa per tre mesi, quando altre leggi l’avevano costretta a toglierselo. Io sarei stata altrettanto tenace nel mio rifiuto di portarlo. Non sapevo che di lì a poco quel rifiuto avrebbe potuto costarmi il carcere, la fustigazione o addirittura la vita».

Che anche la mascherina sia anzitutto un simbolo politico – di una dittatura ipocritamente salutistica che mira più alla quantità che alla qualità della vita – lo si evince non solo dalla sua imposizione indiscriminata (all’aperto, di sera, ai giovani, ai già immunizzati…), ma anche dalla sua effettiva pratica: non ho conosciuto nessuno che davvero la cambi ogni poche ore afferrandola schizzinosamente per gli elastici (gli oceani ringraziano, perlomeno); in compenso ho visto molti che, come le vessate donne iraniane, si fanno beffa del governo appena possibile lasciando trapelare là una ciocca di capelli, qua un pezzo di naso. Chi a questo punto vorrebbe farmi internare per pericolosa pazzia da provetto untore dovrebbe considerare che esempio di igiene dà lo stato stesso nei suoi templi della sanità. Una fonte di prima mano mi rivela che le “pulizie” in un nosocomio dei paraggi vengono fatte con acqua e… basta (viva gli appalti al ribasso). Alla mia incredulità – non eccessiva in realtà, ma pensavo che in tempo di covid qualcosa fosse cambiato… – mi ha confermato che no, non c’è disinfezione alcuna delle superfici ospedaliere.

Torniamo al libro. «Ero stremata dalla lotta quotidiana contro regole e imposizioni del tutto arbitrarie», ammette Azar Nafisi. «Eravamo tutte vittime degli abusi di un regime totalitario, delle continue intrusioni nei nostri spazi più intimi, della finzione che altri volevano imporci». «È incredibile come si finisca per abituarsi a tutto. Sembrava che non mi accorgessi di quanto la vita quotidiana fosse ormai imprevedibile e convulsa». E ancora: «la gente era stanca e sembrava non far più caso agli editti del governo. Si celebravano matrimoni e si davano feste senza aspettare il permesso della milizia o dei guardiani della rivoluzione»; «la guerra era perduta, l’economia nel caos e la disoccupazione alle stelle». Questo il sapore della dittatura (lo avete degustato anche voi, ultimamente?). Dittatura che non è mai giustificata, né dallo zelo religioso né dal diktat salutistico, dogma dei nostri tempi. (Hint: ora che abbiamo le statistiche di medio periodo, provate a confrontare il numero di morti per milione della liberale e responsabilizzante Svezia con quello della sbirresca e paranoica Italia…).

Ok: ho ripreso a parlare dei fatti attuali. Purtroppo, come ben nota la nostra scrittrice, «il regime si è insinuato così bene in ogni angolo della nostra vita che non riusciamo più a pensare ad altro». Il dramma della dittatura è quello di inocularsi nei gangli della coscienza e nella trama della vita privata: vivere appartato non mi ha preservato dal tracimare della tracotanza al potere. «Dicono che il privato è politico; non è vero, naturalmente. Anzi, al centro della lotta per i diritti politici c’è proprio il desiderio di proteggere noi stessi, di impedire al politico di intromettersi nella vita privata». Lo ha fatto quarant’anni fa con l’hiv, dicendoci come e con chi (non) scopare; lo rifà adesso, prescrivendoci un nuovo galateo della socialità che per fortuna solo pochi in privato seguono veramente. È una farsa – ma questo richiede un regime: recitare.

Concludiamo con l’ultima citazione. «Ormai mi sono convinta che la vera democrazia non può esistere senza la libertà di immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri e desideri». Questo libro non parla solo di tirannia: è anche un inno all’amore per la letteratura. Quando tra poche settimane i nostri ragazzi saranno a fare “lezione” al di qua di un algido schermo, sarà nostra cura trasmettere loro, di presenza, la passione per i libri e la lettura, unico vero vaccino contro la dilagante stupidità e l’imperante cattivo gusto.

(Pubblicato nel numero 407 di Sicilia Libertaria)

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Libertari sì, ma anche un po’ paternalisti Nudge: la spinta gentile (Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein, 2008)

Lo ammetto: per qualche tempo, tanti anni fa, fui affascinato da certe letture di libertarianismo di stampo americano, anzi statunitense – chiamiamolo pure anarcocapitalismo, cercando di non vergognarci troppo. Trovavo le loro teorie sociali assolutamente aberranti, è vero (immaginano senza pudore un mondo abitato da straricchi non tassati ritirati nelle loro enclavi che ridistribuiscono del tutto volontariamente parte della loro ricchezza ai più “sfortunati”: ma da quelle parti si sa, vedono la “filantropia” di Bill Gates chiudendo gli occhi sui “finanziamenti” di Trump e poi si compiacciono che esiste giustizia e bontà a questo mondo…); però al contempo le loro spiegazioni economiche mi sembravano eleganti, sensate e razionali. Oggi so che non è affatto così semplice.

Possiamo discutere per ore se ad essere un furto sia più la proprietà o la tassazione, ma su una cosa dobbiamo concordare: gli umani, almeno economicamente, non sono affatto esseri razionali. (Taciamo degli altri ambiti, per semplicità). Anche gli economisti più accademici hanno ormai abbandonato il paradigma dell’homo oeconomicus: resiste solo qualche filosofo qua e là, ritardatario e disinformato come sempre. Tversky e Kahneman (quest’ultimo autore dell’interessante Pensieri lenti e veloci) già negli anni settanta facevano emergere coi loro esperimenti psicologici la non razionalità del comportamento economico umano: ora mi sono ritrovato tra le mani Nudge: la spinta gentile di Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein (Feltrinelli 2009) che si inserisce nello stesso filone ma ha in più il pregio di indicare una “terza via” in economia, un’opzione anche politica equidistante dal laissez-faire tipicamente di destra e dalle manie di controllo della sinistra.

I due autori chiamano la loro proposta “paternalismo libertario”. Un ossimoro, sulla carta; sicuramente un’espressione infelice che mette assieme due termini polarizzanti e politicamente agli antipodi. «Ci consideriamo libertari perché sosteniamo che, in generale, gli individui dovrebbero essere liberi di fare come credono e, se lo desiderano, di non partecipare a situazioni che considerano spiacevoli… Ci consideriamo paternalisti in quanto pensiamo che sia lecito per gli architetti delle scelte cercare di influenzare i comportamenti degli individui al fine di rendere le loro vite più lunghe, sane e migliori». Detto così suona già meglio: e ho continuato a leggere.

Il presupposto è che l’uomo non sempre agisce razionalmente: «in molti casi, gli individui prendono cattive decisioni: decisioni che non avrebbero preso se avessero prestato piena attenzione e se avessero posseduto informazioni complete, capacità cognitive illimitate e totale autocontrollo». Thaler e Sunstein però ritengono preferibile minimizzare il ricorso a divieti e aumentare i nudge, i “pungoli” come ha voluto renderlo la traduttrice Adele Oliveri. «Un pungolo è qualsiasi elemento che incide in misura significativa sul comportamento degli Umani ma che viene ignorato dagli Econi» (gli “Econi” sarebbero gli inesistenti uomini iperrazionali postulati dall’economia classica…). Un esempio tipico di pungolo è l’opzione per essere donatori di organi di default (nei paesi in cui vige questa regola, che non impone a nessuno di essere donatore ma lo considera tale fino a dichiarazione contraria, le donazioni sono di gran lunga di più…); un altro, più banalmente, è quello di non tenere cibo spazzatura a casa quando si è a dieta (anche in questo caso nessuno ci vieta di ingozzarci, ma non averne disponibile rende la dieta più semplice…); più concretamente, sono pungoli anche le etichette energetiche degli elettrodomestici e i dati di consumo delle automobili. Di esempi è pieno il libro e lascio al lettore la scoperta, ma avverto che alcuni sono fin troppo americani – sempre nel senso di statunitensi: i capitoli sulle assicurazioni sanitarie e sui piani pensionistici sono pressoché illeggibili per noi italiani, e spero che non dovremo mai averci a che fare…

L’uomo che hanno in mente Thaler e Sunstein non è dunque quello razionale ma inesistente dei vecchi economisti né l’uomo progredito ed evoluto teorizzato dagli utopisti: il loro è l’uomo in carne e ossa, con problemi di autocontrollo e soggetto alle più disparate tentazioni, tendenzialmente conformista e pigro, con poco tempo per informarsi meglio e volontà insufficiente per fare scelte che nel lungo periodo possono rivelarsi le migliori. L’uomo in quanto tale deve avere tutta la nostra comprensione e supporto, perché siamo noi. Un uomo del genere va aiutato senza essere vessato: «pensiamo che una buona società debba fare scelte di compromesso tra proteggere gli sventurati e incoraggiare l’iniziativa privata e l’autoaiuto, tra dare a tutti una fetta decente della torta e aumentare le dimensioni della torta… Il più delle volte, i pungoli aiutano chi ha bisogno, determinando un costo trascurabile per chi non ne ha».

«Sosteniamo che in molti campi… una migliore amministrazione si basi non tanto sulla coercizione e l’imposizione di vincoli da parte del governo, quanto su una maggiore libertà di scelta. Se gli incentivi e i pungoli sostituiscono gli obblighi e i divieti, la pubblica amministrazione sarà al tempo stesso più piccola e modesta. Quindi, a scanso di equivoci: non siamo favorevoli a un governo più invadente, ma a un’attività di governo migliore» (ecco riecheggiare Thoreau…). Thaler e Sunstein credono che la loro proposta sia veramente bipartisan – né di destra né di sinistra, dicono testualmente. Oggi questa espressione è per noi un campanello d’allarme e ci mette in guardia contro chi la pronuncia come uno chiaramente di destra: credo però che in economia, almeno in alcuni ambiti, si possa ancora usare senza troppi timori. Il libero scambio, ad esempio, davvero non è di destra né di sinistra: ma la pretesa del capitalismo (con o senza prefisso “anarco”: non fa davvero differenza…) di giustificare con esso la propria condotta schiavistica, monopolistica ed esternalizzante, questo sì che è di destra.

(Pubblicato nel numero 406 di Sicilia Libertaria)

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Dubitare, disobbedire, non collaborare La disobbedienza civile (Henry David Thoreau, 1848)

(Spoiler alert: questo è un mea culpa e al contempo un j’accuse verso chi, come il sottoscritto, pur sentendosi anarchico s’è adeguato ai domiciliari per oltre due mesi – unica consolazione il vano sbraitare su Facebook, come se fosse un luogo d’elezione libertario. Caro sedicente compagno di libertà, se anche tu nel tuo intimo senti di non esserti meritato negli scorsi mesi la nomea d’anarchico, sappi che sei in buona compagnia).

Da un paio di settimane non c’è più l’obbligo della giustificazione da presentare alle forze dell’ordine per uscire: una pratica aberrante e mortificante che m’ha tolto ogni voglia di allontanarmi da casa. Certo, ora andare in giro è una patetica mascherata: ma provo a considerarlo simile al divieto di andare in giro senza mutande – una mera questione di decoro – e cerco di ricordare a me stesso che ogni volta che indosso la mascherina è perché sto per mettere piede ancora una volta in un tempio del capitalismo: magari la temporanea anossia che vi provo dentro me ne terrà lontano sempre più.

Per oltre due mesi sono stato turbato da ogni genere di sentimento deprimente – ansia angoscia tristezza rabbia – ma ora è rimasto solo uno strascico di frustrazione per non essere stato all’altezza delle mie idee, una volta tanto che potevano essere messe platealmente in pratica. Cosa m’ha trattenuto dal disobbedire, andando a trovare persone a me care, a procurarmi cose che il paesello di provincia non offre o anche solo a vedere il mare? Ho fatto varie ipotesi: non era paura del virus, moderata e solo alla prima ora, né tanto meno un patriottico senso di responsabilità, quando due settimane di quarantena bastavano a togliersi ogni dubbio: in verità è stato solo per evitare noie. Del resto avevo deciso di condurre il più possibile vita appartata ben prima di esservi costretto, e parte del merito o della colpa di questa mia scelta è del Walden di Thoreau; però Thoreau era uno che, quand’era il caso, era anche capace di disobbedire, a costo di subirne le conseguenze. Così in questi giorni ho riletto La disobbedienza civile per riordinarmi le idee.

Thoreau non era propriamente un anarchico, e lo specifica subito: «a differenza di quelli che si definiscono anarchici, io non chiedo l’immediata abolizione del governo bensì, e subito, un governo migliore» (cito dalla traduzione di Piero Sanavio); probabilmente oggi sarebbe un sostenitore dello stato minimo («è con vero entusiasmo che sottoscrivo il motto: “il miglior governo è quello che governa meno”», anzi addirittura «il miglior governo “è quello che non governa affatto”»). Eppure oggi lo ricordiamo come uno dei più grandi cantori della libertà e come un compagno di lotte importanti: era fermamente contrario alla schiavitù e alla guerra, e nel nome di queste convinzioni, nonché per l’orrore che i suoi soldi venissero usati per uccidere o incatenare altri uomini, per sei anni non pagò le tasse – una protesta purtroppo ritenuta oggi troppo libertarian nel senso deteriore (cioè americano) del termine da molti “anarchici”; una protesta che però, a ben vedere, è l’unica che va a incidere direttamente sul capitale dello stato.

Thoreau era convinto che ci sono decisioni che non si possono demandare: «deve sempre il cittadino – seppure per un istante e in minimo grado – abbandonare la propria coscienza nelle mani del legislatore? e allora perché ha una coscienza? Penso che dovremmo essere uomini prima di essere sudditi». Il problema per lui, però, non sono tanto i governanti quanto coloro che gli obbediscono, specie se controvoglia: «quelli che, pur disapprovando il carattere e le attività d’un qualsiasi governo, gli concedono la propria obbedienza e il proprio favore, ne sono indubbiamente i sostenitori più coscienziosi e assai spesso i più seri ostacoli da superare». Quanto ai diligenti cittadini appassionati di crocette, Thoreau sostiene che «persino votare per ciò che è giusto è come non fare nulla per esso: significa soltanto esprimere debolmente il desiderio che ciò che è giusto prevalga».

Insomma, ci siamo capiti: se da un lato devo ancora smaltire la rabbia per due mesi di vita fottuti – per non parlare del futuro, che andrà sempre più verso una direzione che non potevo immaginare nemmeno nei miei momenti più pessimistici – dall’altro devo ancora capire com’è che ci siamo fatti imbrigliare, se non imbrogliare. C’era forse un fondo di buon senso nello stare a casa il più possibile: ma erano proprio necessari l’armamentario sbirresco, l’apparato orwelliano, la spettacolarizzazione insana e quell’intransigenza mal diretta? E soprattutto: da quando in qua pensiamo che il governo agisca con buon senso? – Niente: semplicemente ho vissuto sulla mia pelle cosa vuol dire obbedire a un regime: non me ne farò facilmente una ragione. Anni di studi e convinzioni radicate non sono serviti a nulla contro la paura delle minacce dello stato: come sapeva bene Thoreau, e come sappiamo ancora meglio noi oggi, «se nego l’autorità dello stato… presto lo stato si impadronirà e distruggerà ogni cosa in mio possesso, e senza fine tartasserà me e i miei figli». In fondo questo soltanto ci ha trattenuto e sempre ci trattiene dal disobbedire e dall’insorgere: il timore di perdere pure quel poco che abbiamo – non la libertà, ché quella già mancava, ma i pochi soldi per arrivare alla fine del mese, una macchina mezza scassata, talvolta una casa costata sacrifici ad essere fortunati. Spero caldamente di non dovere rivivere periodi di lockdown: non mi perdonerei nuovamente per la codardia.

Torniamo a Thoreau per concludere. «Non ci sarà uno stato veramente libero e illuminato finché lo stato stesso non riconoscerà l’individuo come una forza più alta e indipendente, dalla quale la forza e l’autorità di esso stato derivano, e non giungerà a trattarlo di conseguenza». Devo diffidare sempre da chi vuole disconoscere ed eliminare l’irriducibile singolarità e complessità degli individui: e lo stato, che ci ha trattati come una massa di killer da tenere isolati e imprigionati, è in cima alla lista.

(Pubblicato nel numero 405 di Sicilia Libertaria).

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Leggere al tempo della peste La peste (Albert Camus, 1947)

Quando due mesi fa ci rinchiusero in casa, dapprima pensai: ci sono abituato, vedrò solo un po’ meno gente e leggerò più libri del solito. Ma il mio timore per il virus durò solo poche ore: il mio animo libertario, privato ingiustificatamente di libertà che ho sempre ritenuto inalienabili, da allora mantiene un sottofondo saturnino e riottoso, e un mélange di tristezza e frustrazione mi assale appena ripenso che oggi la legge è in mano agli sbirri. Paziento ancora un po’ prima di disobbedire: in fin dei conti sono tra i fortunati aspiranti untori che ha potuto cogliere asparagi dal proprio fazzoletto di terra (di cui non mi hanno privato, ancora).

Quello stato d’animo ha fatto sì che non avessi “testa” per leggere in genere, men che meno saggi. Avevo cominciato Sorvegliare e punire di Foucault, ma stavo già appendendo un cappio alla trave; mi ero buttato su qualcosa di più pop come A cosa serve la politica di Piero Angela ma la sua risposta riduttiva e assolutamente capitalistica mi deluse e imbarazzò; sto ancora leggiucchiando Terroni di Pino Aprile solo per riavere conferma che ancora una volta dal nord dettano legge per gettare ulteriormente nel baratro quelli del sud. Così da marzo ho letto solo narrativa: per “svagare”. E quale migliore svago che La peste di Camus? Tanto più che nel 2017 la Bompiani ne ha pubblicato una “nuova brillante traduzione” di Yasmina Mélaouah (io mi ritrovavo a casa cartacea la storica di Beniamino Dal Fabbro, più pedissequa ma anche meno scorrevole: oggi citerò la più recente).

Un medico di una città algerina trova un topo morto davanti casa; dopo qualche giorno i topi morti si trovano ovunque, e il portinaio che aveva rimosso il primo topo muore. Dopo qualche altro giorno cominciano a morire altre persone. Presto il medico si rende conto che è peste: i politici vorrebbero negarlo ma poi chiudono la città. La gente inizia a morire come i topi e viene seppellita in fosse comuni. Neanche il vaccino sembra avere effetto… – Questa, in breve, la trama ad uso dei miei frettolosi congiunti di Facebook. In questo romanzo (molto poco romanzesco in verità…) i politici non chiudono la gente a casa (a parte gli infetti), tuttavia blindano la città: e a quei tempi – erano gli anni quaranta – significava troncare con chi non abitava nella stessa città, senza neanche il palliativo delle videochiamate. Poco male: la gente può continuare e di fatto continua ad andare ai bar, ai ristoranti e anche al teatro e al cinema, nonché immancabilmente in chiesa dove c’è un prete che ammannisce facili prediche contro i peccatori.

A parte queste differenze di confinamento, le altre dinamiche sono quelle che abbiamo imparato a conoscere senza mediazione letteraria in queste settimane: i medici che allertano i politici, i politici che vogliono insabbiare tutto e che poi ex abrupto prendono misure drastiche (lasciando malcapitati stranieri dentro la città, lontani dalle loro famiglie), i contagi che continuano ad aumentare nonostante le misure prese, la burocrazia assurda con conteggio meticoloso dei contagiati e dei morti da parte di solerti funzionari, i funerali negati, l’antidoto che non funziona… Quello che in più questo libro ci mostra è la sofferenza della gente, gli effetti dell’esilio forzato, la disperazione e la frustrazione dei sopravvissuti. «I nostri concittadini, quelli almeno che più avevano sofferto nell’essere separati, si abituavano forse alla situazione? Non si tratta di questo. Sarebbe più esatto dire che tanto nel morale quanto nel fisico soffrivano di disincarnazione». Disincarnazione che negli annali italiani, così presi dall’elogio per il modello tutto nostrano di incarcerazione preventiva, non è pervenuta.

«Da questo punto di vista, erano davvero entrati nell’ordine della peste, tanto più efficace poiché più mediocre. Nessuno fra noi provava più grandi sentimenti. Ma tutti provavano sentimenti prevedibili. “È ora che finisca,” dicevano i nostri concittadini, perché in tempi di flagelli è normale desiderare la fine delle sofferenze collettive e perché in realtà desideravano davvero che finisse. Ma non era detto con l’ardore o l’aspro sentimento dell’inizio, bensì con quelle poche ragioni che per noi erano ancora chiare, e che erano povere. Al grande slancio indomito delle prime settimane era seguito un abbattimento che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazione, ma che era comunque una specie di temporaneo consenso. I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si suol dire, perché non c’era modo di fare altrimenti. Avevano ancora, certo, le sembianze della tragedia e della sofferenza, ma non ne sentivano più il morso». Io non avrei saputo dirlo meglio.

Ultima breve citazione che inquadra bene la schizofrenia nella quale anche noi ci ritroviamo adesso immersi: gli abitanti di Orano sono dilaniati da contraddizioni, «spinti verso gli altri dal bisogno profondo di calore umano, e tuttavia tenuti distanti dalla diffidenza che impedisce loro di lasciarsi andare. Lo sappiamo benissimo tutti che non possiamo fidarci del nostro vicino, il quale senza che ce ne accorgiamo può trasmetterci la peste e approfittare della nostra vulnerabilità per infettarci». La lotta che un tempo era di classe e poi era assurta contro la casta, adesso è finalmente civile: interna al corpo sociale, cioè. Divide et impera.

Proprio stamattina, mentre pensavo che non entrare in Facebook mi avrebbe preservato dall’odio sociale (compreso il mio!) che è la vera cifra di questi giorni, ricevo un’email semplice semplice da uno sconosciuto. «I compagni dicono che le misure del governo sono lesive della libertà e che c’è il pericolo di una svolta autoritaria… I compagni… dimenticano che prima di tutto viene la salute». Il primo impulso era quello di indirizzare il mittente verso la porta che sta sempre in fondo a destra; mi limiterò però a ricordare a questo grande falco che la salute non è fatta solo di mera sopravvivenza fisica; e che si può morire pure di fame, di isolamento e di depressione.

(Pubblicato nel numero 404 di Sicilia Libertaria).

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