La mafia a Ragusa non esiste Un morto ogni tanto (Paolo Borrometi, 2018)

Un giovane giornalista del sud del sud dell’Italia scrive qualche articolo contro dei mafiosetti locali: gli rubano in casa. Continua a scrivere: gli rompono un braccio. Continua ancora: lo Stato lo mette sotto scorta perché vogliono farlo saltare in aria. Comincia così a scrivere la storia della sua vita da giornalista antimafia tirando ancora in ballo i suddetti – e anche qualche pezzo grosso ormai inoffensivo – ma soprattutto parlando di sé.

Chi mi segue su Facebook sa che da un po’ mi diletto a scrivere quattro righe tra l’ironico e il sardonico su ogni libro che leggo. Queste riassumevano, non del tutto iniquamente, Un morto ogni tanto (Solferino 2018) di Paolo Borrometi, il giornalista di origini modicane sotto scorta dal 2014. Devo essere onesto: mi aspettavo un libro con nomi e cognomi, un’opera che scoperchiasse la mafia di Ragusa – quella che viene continuamente negata da tutti: eppure neanche una settimana fa arrestavano i due imprenditori che hanno costruito il porto di Marina, e non una parola… Dicevo: mi aspettavo l’apertura del vaso di Pandora, e invece a tratti ho avuto la fastidiosa impressione che Borrometi si stesse esibendo come Cristo in croce da Barbara D’Urso.

Ok, è un po’ stronzo e non molto politically correct dire qualcosa del genere: Paolo Borrometi ha smesso di vivere una vita normale e libera, sotto scorta com’è, per avere avuto il coraggio di parlare. Solo che m’aspettavo un modo diverso di dire le cose: il libro è per metà autobiografia (strappalacrime fosse solo per i tristissimi fatti che riporta, dall’aggressione subita al progetto di attentato) e per metà denuncia di nomi più o meno piccoli di Scicli e Vittoria (il resto è ambientato per lo più nel siracusano). Continua a sembrare che davvero non ci sia mafia a Ragusa città: solo un fugace accenno a una riunione di affari su uno yacht a Marina in cui era presente un’automobile intestata al Lanificio («sulla carta solo una discoteca»). I toni generali sono inoltre fastidiosamente ditirambici nei confronti dello Stato (cosa che va in contraddizione con un capitolo del libro in cui si denunciano i legami tra mafia e politica), delle forze dell’ordine e qua e là perfino della Chiesa (l’attuale papa gesuita viene definito «l’uomo più rivoluzionario oggi in vita», sic…), e rimane sotteso un irreale manicheismo tra i buoni da una parte (le autorità costituite, gli «angeli»…) e i cattivi dall’altra (come se ai piani più bassi dell’impero mafioso non ci fossero disperati ignari e povere vittime…).

Al di là del fastidio per le aspettative in gran parte disattese – da un giornalista mi aspettavo giornalismo, non vittimismo – qualcosa di buono resta, soprattutto per chi empatizzando con le vicissitudini di Borrometi diventa più recettivo e sensibile verso certi temi ormai un po’ démodé. Il primo è il mai troppo ricordato legame tra pomodoro ciliegino e sfruttamento («che spesso… cammina di pari passo alla tratta dei clandestini»): sfruttamento soprattutto di donne – «oltre a essere sottopagate le fimmine devono offrire anche i loro corpi… non a caso in questo lembo di Sicilia c’è un’altissima percentuale di aborti tra le donne romene» (ricordatevelo ogni volta che comprate quella merda rossa prodotta in serie in serre). Il secondo è la confutazione del pregiudizio della provincia babba, «il tacito assunto che quei territori siano stati (e siano) quasi del tutto immuni dalla criminalità mafiosa, parte di una Sicilia mite, ingenua, tranquilla» (purtroppo lo stesso Borrometi sembra ricadere nel cliché a furia di parlarci di vittoriesi e sciclitani dalle teste calde: i colletti bianchi, se appaiono, sono per lo più commercialisti di Castelvetrano…).

Il terzo è la disamina del commercio contemporaneo: «arrivi nel territorio ragusano e non puoi che rimanere colpito dalla distesa di centri commerciali. Vere e proprie cattedrali nel deserto, desolatamente vuote. Nessuno si domanda come mai queste grandi attività possano continuare a vivere, con quali soldi aprano o a chi appartengano davvero» (in realtà, a parte in questi tempi di psicosi virale, a me i centri commerciali ragusani sono sempre sembrati schifosamente strapieni: ma forse sono io a essere troppo misantropo…). Il quarto è il rammarico per l’omertà: «a parlare per primi, solo i morti. Raccontare agli inquirenti avrebbe significato diventare una “spia”. Per paura, o convenienza, sempre meglio tacere» (purtroppo a dover parlare ci vorrebbe una scorta per ogni cittadino…).

Il quinto è la constatazione dei tristi moti migratori sia in arrivo che in partenza («un tessuto sociale ed economico che andrebbe ripensato, la cui trama è l’immigrazione della disperazione e l’ordito un’emigrazione culturale altissima: tanta disperazione che arriva dall’Est e dal Mediterraneo e tanti, tantissimi giovani che se ne vanno dalla terra in cui i loro padri e le loro madri hanno saputo fare miracoli»). Il sesto è la denuncia del funzionamento viziato del mercato, soprattutto quello ortofrutticolo in mano alle agromafie. Il settimo è l’inquadramento della mafia come sistema totale: «“le mafie” non sono solo un fenomeno criminale, ma un sistema in cui la ricerca del consenso e i rapporti con la politica e l’imprenditoria sono le altre tre gambe del tavolo» (a tal proposito c’è la parte per noi più interessante del libro, quella che ripercorre le vicissitudini politiche delle ultime elezioni a Vittoria seguite dal commissariamento per mafia che perdura tutt’oggi, dopo oltre un anno e mezzo…).

Sette punti che andrebbero meditati ma soprattutto approfonditi con altre letture; purtroppo il libro di Borrometi è privo di bibliografia e non una sola fonte viene citata – a fondo libro c’è solo la tristissima paraculata, probabilmente voluta dalla casa editrice, in cui si dichiara che «per tutti, anche per coloro che sono stati considerati colpevoli nei primi gradi di giudizio… resta valido il principio della presunzione di innocenza». Forse tra cent’anni salterà fuori qualche nome di attuale mafioso ragusano accertato.

(Pubblicato nel numero 403 di Sicilia Libertaria).

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