L’uomo diventa ciò che mangia Il dilemma dell’onnivoro di Michael Pollan

«L’uomo è ciò che mangia»: a questa monolitica conclusione perveniva Feuerbach recensendo uno scritto sull’alimentazione. Un secolo e mezzo dopo ci ritroviamo di fronte a un altro libro sul cibo, in dubbio se ammettere che l’uomo è industria, visto come questa s’è imposta fin nell’ambito alimentare, o negare l’importanza del nutrimento nello sviluppo umano.

Michael Pollan, con Il dilemma dell’onnivoro (Giunti 2011), tenta non solo di scovare un’altra via praticabile, ma ancor più di schiarire quelle già battute. Premessa della sua indagine alimentare è il non aver mai riflettuto sulla provenienza dei pasti: una colpa che purtroppo accomuna quotidianamente molti di noi, per frenesia, superficialità o comodità: il cibo arriva dal supermercato e, per mangiarlo, basta che sembri buono. Questo non è solo non aver coscienza di ciò che si mette in corpo e che diventerà parte di sé; è incoscienza tout court. L’uomo infatti è onnivoro, può mangiare potenzialmente di tutto; ma proprio per questo non ha un istinto molto sviluppato per capire cosa fa bene e cosa fa male. Nel tentativo di capirlo, l’autore segue quattro diversi pasti attraverso tutte le fasi produttive: le differenti catene alimentari analizzate sono l’industriale, la ‘biologica’ industriale, la sostenibile locale e la ‘caccia-raccolta’, in ordine decrescente di diffusione – e di sanità.

La prima parte del libro è un vero e proprio teatro degli orrori e degli errori dell’uomo, colma com’è di interminabili campi di mais e di manzi da sterminare. Pollan ci mette in guardia: i prodotti che ci vengono propinati nei supermercati sono «tutto mais» (sacchetti compresi): dal mais vengono l’olio, la margarina, gli sciroppi di glucosio e di glucosio-fruttosio, gli amidi, l’alcol, il caramello, il glutammato e la gomma; oltre tutto, il mais è ciò che mangiano gli animali di cui ci cibiamo. Un simile attentato alla biodiversità si ritorce contro l’uomo stesso, rendendolo obeso e monodimensionale – uguale da tutti i lati, perciò ottuso.

Come se la perdita di forma e di gusto non bastassero si aggiunga che, in una simile catena alimentare, per produrre una caloria di cibo ne occorrono dieci da combustibili fossili: ciò significa che una ‘fattoria’ industriale consuma più energia di quanta ne produce. A chi conviene tutto ciò? Non agli agricoltori, a un passo dalla bancarotta; non al consumatore, ingrassato e raggirato; non all’ambiente, inquinato e deturpato. I vantaggi vanno tutti ai grandi imprenditori e allo Stato loro complice. È con sdegno che si apprende che questo immenso suicidio planetario viene perpetuato per mezzo di fondi e ‘sussidi’ continuamente erogati dal governo – quello americano, sempre dipinto come tanto ‘liberale’! Così il meccanismo del libero mercato s’inceppa e gli effetti sono catastrofici: gli agricoltori continuano a seminare organismi modificati e depauperanti perché ottengono incentivi economici statali, ma questi fanno aumentare la produzione, sicché i prezzi continuano a calare; nel frattempo servono sempre più soldi dai consumatori, in un circolo vizioso che non ha più limiti. Anche il limite naturale costituito dallo stomaco umano è stato abbattuto: infatti la nostra origine di animali sempre minacciati dalle carestie ci ha fatto sviluppare una innata preferenza per i cibi dolci e grassi, sicure riserve energetiche di fronte alle quali non sappiamo limitarci; l’industria alimentare, consapevole di questo bug evolutivo, manipola i cibi edulcorandoli e ungendoli – complice l’esiguo prezzo del mais, materia prima per simile paccottiglia – e riuscendo così a farci mangiare più del necessario.

A questo punto dovrebbe essere chiaro che mangiare è un atto politico a tutti gli effetti. Superfluo aggiungere dettagli sui mattatoi intensivi (qualcuno dirà: ‘americanate’, cose che in questa ridente scheggia del Mediterraneo non si vedono – ma è solo questione di tempo…): risparmio il disgusto e chioso con Pollan: «La catena alimentare industriale che rifornisce i nostri supermercati si espande per migliaia di chilometri e ha decine e decine di anelli differenti. È una catena alimentata dal petrolio e dalla benzina, e controllata dalle grandi imprese. È una catena che ci allontana dal cibo e ci impedisce di sapere ciò che mangiamo veramente».

Il resto del libro indaga sull’alimentazione più o meno sostenibile. In breve: il cosiddetto ‘biologico’ è ormai un business miliardario piegato alle esigenze dell’industria (Pollan parla senza mezzi termini di ‘biologico industriale’ per distinguerlo da quello delle fattorie locali): la sua catena alimentare è comunque basata sul petrolio, e non saranno certo poche blande leggi che vietano alcuni pesticidi a renderlo davvero sostenibile. Per contro, il cibo sostenibile locale ottiene il pieno entusiasmo dall’autore: la catena alimentare comincia dall’erba – dunque dall’energia solare – e viene mantenuta vitale grazie a un sapiente equilibrio tra le varie specie viventi dell’ecosistema; ci guadagniamo noi tutti, in gusto, salute e prosperità (purtroppo dove c’è uno Stato o ci sono codici a barre o ci sono le sbarre…). L’ultima catena viene illustrata come esperienza formativa più che come alternativa attuabile: infatti il procacciarsi il cibo da sé permette all’autore di riflettere sugli altri dilemmi, quello del carnivoro e quello del vegetariano.

La conclusione riflette sull’effettiva convenienza del nostro stile di vita: dobbiamo sempre tenere presente che, benché i pasti confezionati sembrino economici, in realtà i loro costi di fatto sono enormi – i prezzi nascosti vengono concretamente pagati sotto forma di imposte, di inquinamento, di riscaldamento globale, di salute. I consigli dell’autore rimarcano l’importanza della convivialità del pasto (coltivare e cucinare da sé; pasteggiare in compagnia, lentamente); uno, in particolare, è già diventato non meno proverbiale del detto ricordato in apertura: «Non mangiate nulla che la vostra bisnonna non riconoscerebbe come cibo».

(Recensione anarchica pubblicata nel numero 304 di Sicilia Libertaria).

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