L’anarchia in azione Anarchia come organizzazione di Colin Ward

Nel momento in cui scrivo, ci dicono, l’Italia è divisa in tre. Tre diverse tifoserie reclamano confusamente ciascuna la propria vittoria e/o l’altrui sconfitta. Il triello, in cui si stenta a capire quale sia il buono, sta appassionando milioni di italiani che non vedono l’ora di essere governati. Tutti gli altri sono semplicemente invisibili, o addirittura “nemici della Patria”: se solo mi arrischiassi a dire pubblicamente che questa situazione di “ingovernabilità” non è necessariamente un male dal punto di vista anarchico – tutt’altro! – rischierei l’immediato linciaggio. Meglio restare appartato, ché per la vera rivoluzione (non “civile” né stellare, ma sociale), devo prenderne atto, c’è tempo; e piuttosto che pendere dalle labbra di giornalisti, telecronisti e guru del web, preferisco rileggere un ottimo libro.

In realtà l'attuale situazione politica italiana ricorda più un triello del genere...

Anarchia come organizzazione (Elèuthera 2010) «è un libro sui modi in cui la gente si organizza da sé, si auto-organizza, in ogni genere di società: primitive, tradizionali, moderne, capitaliste o comuniste», come scrive l’autore, Colin Ward, nella prefazione. L’approccio non vuole essere teorico dunque, ma pratico: non a caso il titolo originale è “Anarchy in Action”. Ward è infatti convinto che il modo migliore per convincere la gente della bontà dell’anarchia è dimostrarle che funziona, e che anzi «una società anarchica, una società che si organizza senza autorità, esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello Stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio e delle sue ingiustizie, del nazionalismo e delle sue lealtà suicide, delle religioni e delle loro superstizioni e separazioni».

Colin Ward

L’anarchismo, più che come utopia di una società futura, viene inteso da Ward come «un modo umano di organizzarsi radicato nell’esperienza della vita quotidiana, che funziona a fianco delle tendenze spiccatamente autoritarie della nostra società e nonostante quelle». Se non è diffuso come auspicheremmo non è dovuto alla pretesa che “non funziona”, ma al fatto che molta, troppa gente crede negli stessi “valori” che propugnano i loro governanti, cioè il principio di autorità, la gerarchia e il potere. Ward, per contro, è fermamente convinto che la società possa organizzarsi anche «senza il Potere» in modo migliore. Cominciamo dalla pars destruens. In ultima analisi, «spogliato dalla giustificazione metafisica di cui filosofi e politici l’hanno ammantato, lo Stato si può definire come “un meccanismo politico che si serve della violenza”». Tale violenza è al contempo diretta contro il “nemico esterno” ma usata contro l’intera “società soggetta”, e si esercita, di fatto, nel temibile potere coercitivo in mano a una minoranza: «la nostra è una società nella quale, in ogni campo, a prendere le decisioni, a esercitare controlli, a limitare le scelte, è sempre un gruppo ristretto di persone, mentre la stragrande maggioranza della gente può solo accettare quelle decisioni, sottoporsi al controllo, restringere il proprio campo d’azione nei limiti delle scelte impostele dall’esterno».

Voting changes nothing!

Che fare, dunque? «Dovrebbe essere ovvio che non si può cominciare con il sostenere i partiti esistenti, associandovisi o sperando di cambiarli dall’interno, né con il fondarne di nuovi per partecipare alla lotta per il potere. Il nostro compito non è di prenderci il potere, bensì di eroderlo, di risucchiarlo via dallo Stato». In altre parole dobbiamo mirare all’autogoverno, non a sostituire i politici vecchi con quelli nuovi e “certificati”, operazione funzionale solo allo scopo di mantenere in piedi l’apparato statale e a perseverare nella dicotomia elettori/eletti, ossia governati/governanti! Ma passiamo alla pars costruens: il primo consiglio di Ward è quello di applicare i principi libertari già nel nostro piccolo. La “via anarchica” è possibile in qualsiasi organizzazione sociale così come in ogni azione umana – nell’abitare, nell’amare, nel lavorare e nell’imparare – ed è abbracciata con convinzione (benché spesso inconsapevolmente) da molti gruppi informali, senza capi e privi di qualsiasi forma di leadership gerarchica, autoritaria, privilegiata e permanente (pensiamo a tante associazioni volontarie…). L’anarchismo non ha alcun interesse a porsi ai vertici, ed è allergico a ogni istituzione; secondo Ward l’ordine sorgerà spontaneamente, per tentativi ed errori: l’armonia nasce dalla complessità, e dunque dall’autonomia e dall’autorealizzazione degli individui.

L'autogestione è per vivere

Ward vuole però liberare il campo da certi fraintendimenti. Intanto «l’anarchia risulta non dalla semplicità di una società priva di organizzazione sociale, ma dalla complessità e dalla molteplicità di forme di organizzazione sociale»; e ancora: «l’alternativa anarchica è quella che propone la frammentazione e la scissione al posto della fusione, la diversità al posto dell’unità, propone insomma una massa di società e non una società di massa». Per far capire meglio agli irriducibili critici che anarchia non significa caos, Ward porta come esempio il sistema postale o quello ferroviario (avrebbe potuto citare anche internet, ma la prima edizione dell’opera risale al 1973…) per spiegare come sia possibile il funzionamento di reti complesse senza il coordinamento e la pianificazione da parte di un’autorità centrale: possiamo spedire una lettera all’altra parte del mondo, o viaggiare in treno attraverso vari paesi, grazie ad accordi federativi tra i vari sistemi.

Anarchici

Nell’ultimo capitolo, “Anarchia e futuro plausibile”, l’autore cerca di trarre le somme. Premette, molto realisticamente, che «una società anarchica è difficile che si realizzi, non perché l’anarchia sia irrealizzabile, o fuori moda, o impopolare, ma perché la società umana è diversificata». Al contempo, però, delinea certe vie da percorrere. Molte le conosciamo già: antiautoritarismo, descolarizzazione, decrescita, decentralizzazione, permacultura; ce n’è però una che abbiamo dimenticato. Scrive Ward: «non si è mai assistito all’abdicazione volontaria al privilegio e al potere. Questo è il motivo per cui l’anarchismo è un appello alla rivoluzione». E la rivoluzione deve servire ai popoli ad allargare la propria sfera di autonomia e ridurre la sottomissione all’autorità, non a «installare una nuova cricca di oppressori»! Nel caso non si trovasse la motivazione per la disobbedienza e la rivolta, ricordiamo sempre che «lo Stato è una forma di organizzazione sociale che differisce da tutte le altre da due punti di vista: in primo luogo perché rivendica l’adesione di tutta la popolazione e non solo di coloro che intendono farne parte; in secondo luogo perché dispone di mezzi coercitivi per imporre tale adesione». Sta a noi capire fino a che punto sostenere questa associazione a delinquere.

(Recensione anarchica pubblicata nel numero 326 di Sicilia Libertaria).

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