Come alla fine d’una guerra Napoli ’44 (Norman Lewis, 1978)

Rileggere oggi Napoli ’44 di Norman Lewis (Adelphi 1993) è un’esperienza che apre gli occhi non solo sulla Napoli di allora, ma anche e soprattutto sull’Italia di ora. Tre quarti di secolo sembrano essere trascorsi invano, tanto è l’impatto che la distruzione della guerra e il conseguente dominio (che qualcuno chiama ancora “liberazione”!) straniero esercitano tuttora sul paese in cui abbiamo la sventura di vivere.

L’autore, inglese, partecipò allo sbarco degli Alleati a Salerno nel 1943 e rimase in Campania per oltre un anno. Nella sua opera gli orrori della guerra appaiono solo di sfuggita – del resto, per un militare con mansioni d’ufficio i rischi erano ben pochi: Lewis è relativamente libero di esplorare Napoli e dintorni e di fissare quasi quotidianamente su carta le proprie impressioni. Tralasciamo le pagine più folcloristiche e le più drammatiche (quelle sui “miracoli” dei santi contro quelle sulla prostituzione di madri di famiglia in cambio di scatolette di carne) e soffermiamoci su quelle politiche, che sono le più sorprendenti per la loro attualità. Lewis, per via dei suoi incarichi, ha un contatto diretto con il popolo da un lato – soprattutto con la pletora di “informatori” – e con la polizia italiana e l’AMG (Allied Military Government of Occupied Territories, giusto per rinfrescare la memoria) dall’altro. Questo lo porta a scontrarsi con la corruzione dilagante nelle alte sfere (molti ufficiali americani sono coinvolti direttamente nel contrabbando e nel mercato nero) e con gli illeciti compiuti da poveri cristi affamati, gli unici a pagarla veramente di fronte all’iniqua “giustizia”.

Il primo giudizio di Lewis sul popolo oppresso è che «quasi tutti gli italiani [sono] assolutamente neutrali in fatto di politica»; in realtà questa “neutralità”, o meglio questo apatico disinteresse, viene da anni di sottomissione, e il problema si è esacerbato con l’unificazione dell’Italia: «l’Italia del Sud e la Sicilia […] formano un’unità culturale ed economica, che prospera solo con l’unione politica. I governi del Nord le hanno invece sempre sottovalutate, considerandole aree endemicamente arretrate, di un qualche valore solo come fonti di manodopera e di risorse alimentari a buon mercato […]. Di fatto […] il Sud è in pratica una colonia del Nord industrializzato». Una speranza di riscatto per i meridionali, allora come ora, sembra venire dagli studi: eppure, ci avverte Lewis, Napoli pullula di laureati senza lavoro e più poveri dei sottoproletari: «questi professionisti ridotti alla fame sono il risultato della volontà di ogni famiglia borghese napoletana di avere un figlio laureato, anche se la laurea è inutile. I genitori sono disposti a togliersi il pane di bocca purché il figlio acquisisca il diritto di venire rispettosamente chiamato avvocato, o dottore». Ricordiamocelo, sono parole che descrivono situazioni di settantacinque anni fa…

Nel giro di pochi mesi di governo militare viene reso di nuovo possibile fondare partiti che parteciperanno alla «furiosa rissa democratica che prevedibilmente si scatenerà quando verranno indette le elezioni». L’autore però è molto scettico, notando anzitutto la grande frammentazione politica italiana. Lo schifo è a destra («alcuni [partiti] vengono considerati più risoluti e sinistri, e tra essi quello su cui dovevo indagare, che si chiama “Forza Italia!” [sic!] e si sospetta di simpatie neofasciste») e a manca («i comunisti ortodossi […] sono però in qualche misura indeboliti dall’esistenza di una trentina di correnti, ciascuna delle quali con un proprio organo di stampa, e reciprocamente ostili – l’unico punto su cui concordano è l’appello all’unità dei proletari di tutto il mondo»); nessuno è veramente rivoluzionario («i comizi di questi giorni sono sempre la solita solfa, uno vale l’altro […]. L’oratore di oggi avrebbe dovuto essere, in teoria, un sovversivo, ma non aveva assolutamente nulla di nuovo da dire, e comunque nulla che potesse in alcun modo costituire una minaccia per la sicurezza delle forze alleate»). Intanto i sindaci campani sono tutti uomini di Vito Genovese, braccio destro di Lucky Luciano e diventato nel frattempo “interprete” presso gli americani di stanza a Napoli…

Lo sguardo di Lewis non si ferma alle apparenze: tutto ha una spiegazione più profonda, spesso di carattere pragmaticamente economico – in una parola, la fame. Perciò la camorra è «una forma di resistenza clandestina permanente, evolutasi nei secoli come sistema di autodifesa dalle angherie e dall’esosità di tutti i governi stranieri che si sono succeduti a Napoli», la corruzione è assimilata a uno scambio di doni rituali («questa gente non mi sta offrendo una bustarella, bensì sta compiendo un normale gesto di cortesia»), l’appartenenza politica ha ben poco di ideologico («un disoccupato iscritto alla DC ha maggiori possibilità di trovare lavoro»). Anche di fronte ai casi che più dovevano apparirgli inesplicabili, come gli omicidi nelle faide, Lewis non perde mai l’umanità: a un gruppetto di ergastolani chiede se lo rifarebbero, e la risposta è tanto fatalista quanto filosofica: «nelle stesse circostanze, ci saremmo costretti. È ovvio. Non credere che ci si provi gusto, a fare una cosa del genere. Lo sbaglio è stato metterci al mondo» (ecco il mè phynai di sofoclea memoria…).

Voglio chiudere questo invito alla lettura con l’ultima, lunga e paradossale citazione: «un anno fa li abbiamo liberati dal Mostro Fascista, e loro sono ancora lì, a fare del loro meglio per sorriderci educatamente, affamati come sempre, più che mai fiaccati dalle malattie, circondati dalle macerie della loro meravigliosa città, dove l’ordine costituito non esiste più. E alla fine, cosa ci guadagneranno? La rinascita della democrazia. La fulgida prospettiva di poter un giorno scegliere i propri governanti in una lista di potenti, la cui corruzione, nella maggior parte dei casi, è notoria, e accettata con stanca rassegnazione. In confronto, i giorni di Benito Mussolini devono sembrare un paradiso perduto».

(Pubblicato nel numero 400 di Sicilia Libertaria).

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