#libri2023 Tutti i libri che ho letto nel 2023

Non molti i libri letti nel 2023 – ventuno: sono sceso sotto il minimo sindacale di almeno due libri al mese, anche se a numero di pagine siamo sempre là, attorno alle settemila (per l’esattezza 6873, secondo Anobii), ovvero le venti sacre paginette al giorno.
Pochi, pochissimi saggi, ma posso vantarmi di non aver sbagliato una sola opera di narrativa. Anno decisamente sotto l’insegna della Atwood, che mi ha preso più con la trilogia di MaddAddam che con la stranota saga delle ancelle. Vergognoso che non le abbiano ancora dato il Nobel – o forse no, forse meglio così.
Propositi per l’anno nuovo: riuscire a leggere “Cent’anni di solitudine” per capire se è un capolavoro o una cagata pazzesca.

1. Memorie di un rinnegato (Giampiero Mughini, 2019)

2. La settimana bianca (Emmanuel Carrère, 1995)

3. Piccolo catechismo a uso della classe inferiore (August Strindberg, 1886)

4. Fame (Knut Hamsun, 1890)

5. Il racconto dell’ancella (Margaret Atwood, 1985)

6. I baffi (Emmanuel Carrère, 1986)

7. I testamenti (Margaret Atwood, 2019)

8. Crisi (Jared Diamond, 2019)

9. Buttanissima Sicilia (Pietrangelo Buttafuoco, 2014)

10. L’era della suscettibilità (Guia Soncini, 2021)

11. La società industriale e il suo futuro (Theodore Kaczynski, 1995)

12. Contro l’impegno (Walter Siti, 2021)

13. Fine (Karl Ove Knausgård, 2011)

14. La Sicilia spiegata agli eschimesi (Ottavio Cappellani, 2019)

15. In difesa del cibo (Michael Pollan, 2008)

16. I fatti (Philip Roth, 1988)

17. Avventure nella mente degli altri (Malcolm Gladwell, 2009)

18. Oryx e Crake (Margaret Atwood, 2003)

19. Mentire con le statistiche (Huff Darrell, 1954)

20. L’anno del diluvio (Margaret Atwood, 2009)

21. L’altro inizio (Margaret Atwood, 2013)

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#libri2022 Tutti i libri che ho letto nel 2022

(27 libri, 7485 pagine)

1. Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (Jaron Lanier, 2018)

2. 107 storielle di Žižek (Slavoj Žižek, 2012)

3. Lettera aperta (Goliarda Sapienza, 1967)

4. Utopia per realisti (Rutger Bregman, 2014)

5. L’università di Rebibbia (Goliarda Sapienza, 1983)

6. Il soccombente (Thomas Bernhard, 1983)

7. Indignazione (Philip Roth, 2008)

8. Una nuova storia (non cinica) dell’umanità (Rutger Bregman, 2019)

9. La confraternita dell’uva (John Fante, 1977)

10. Cecità (José Saramago, 1995)

11. Burocrazia (David Graeber, 2015)

12. Saggio sulla lucidità (José Saramago, 2004)

13. Yoga (Emmanuel Carrère, 2020)

14. Annientare (Michel Houellebecq, 2022)

15. Disvelamento. Nella luce di un virus (Alberto Giovanni Biuso, 2022)

16. Full of life (John Fante, 1952)

17. Il freddo (Thomas Bernhard, 1981)

18. Letteratura palestra di libertà (George Orwell, 1930-49)

19. On writing (Stephen King, 2000)

20. Cemento (Thomas Bernhard, 1982)

21. Educazione di una canaglia (Edward Bunker, 2000)

22. Il compagno di viaggio (Curzio Malaparte, 1956)

23. Cotto (Michael Pollan, 2013)

24. Maledetti pacifisti (Nico Piro, 2022)

25. Ballando al buio (Karl Ove Knausgård, 2010)

26. Manifesto del libero pensiero (Paola Mastrocola – Luca Ricolfi, 2021)

27. La pioggia deve cadere (Karl Ove Knausgård, 2010)

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Burocrazia portami via Burocrazia (David Graeber, 2015)

In questi giorni cessa – almeno fino a prova contraria – quello che per molti è stato un incubo discriminatorio, l’imposizione di uno strumento che, a detta del miglior politico italiano dai tempi della repubblica, avrebbe dovuto dare – cito testualmente – «la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose». (Non nomino né il politico né lo strumento, ché non voglio insozzare i miei paragrafi). Molti miei amici e lettori sanno che non ho preso la cosa particolarmente bene: ho passato questi mesi a cercare spiegazioni; soprattutto mi ha sconvolto come molta gente abbia accolto questa operazione fascista addirittura con fiducia e sollievo, mentre il mio buon senso si contorceva e il mio senso di giustizia reclamava vendetta. Una spiegazione scientifica me l’aveva già data Moffett, di cui ho parlato due mesi fa, ma non mi è bastata. È giunto in soccorso il compianto David Graeber con il suo Burocrazia (il titolo originale per intero è molto più esplicativo: The Utopia of Rules: On Technology, Stupidity, and the Secret Joys of Bureaucracy).

Graeber ci avverte fin dalle prime pagine che siamo entrati nell’era della “burocratizzazione totale”: «la burocratizzazione della vita quotidiana comporta l’imposizione di regole e norme impersonali; ma queste regole e norme impersonali, a loro volta, hanno bisogno della minaccia della violenza per funzionare» – in una parola: sbirri. «In quest’ultima fase della burocratizzazione totale, abbiamo visto materializzarsi ovunque telecamere di sicurezza, scooter della polizia, soggetti autorizzati al rilascio di documenti temporanei d’identità e donne e uomini in vari tipi di uniforme, a titolo pubblico o privato, che vengono addestrati alla minaccia, all’intimidazione e all’uso della violenza fisica». Fosse vissuto un anno in più, avrebbe visto l’ampliamento di questo potere e le sue infinite diramazioni presso la società civile: in pratica, la violenza dilagante disposta dall’alto per spezzare il corpo sociale, il tutto implementato tramite la burocratizzazione dei rapporti umani mediati da un qr code.

È l’ultimo step di una trasformazione culturale in cui gli strumenti burocratici aziendali «hanno invaso il resto della società – la scuola, la scienza, il governo – arrivando a permeare praticamente ogni aspetto della vita quotidiana». Il problema è che «più permettiamo agli aspetti della nostra esistenza quotidiana di entrare nella sfera d’influenza delle normative burocratiche, più ci rendiamo complici nel sottovalutare il dato di fatto… che in fondo tutto si basa sulla minaccia della violenza fisica». Questa minaccia è così diffusa che non ci accorgiamo più di essere minacciati: anzi, non riusciamo nemmeno a immaginare come sarebbe non esserlo. Graeber nota che il ricorso alla polizia è sempre più diffuso in ogni ambito, al punto che molti hanno dimenticato che abbiamo vissuto per migliaia di anni senza le cosiddette “forze dell’ordine”. «La polizia passa la maggior parte del tempo a far rispettare una serie infinita di norme e regole su chi può comprare, vendere, fumare, costruire, mangiare e bere che cosa e dove… in parole povere, i poliziotti sono burocrati armati».

Secondo Graeber le burocrazie sono in fondo forme utopiche di organizzazione, basate su rapporti freddi e impersonali che dovrebbero garantire uguaglianza e pari trattamento a tutti; in realtà fissano standard impossibili per poi dare la colpa ai singoli individui perché non riescono a rispettarli. «L’attività principale dei burocrati è valutare. Sono continuamente impegnati a misurare, controllare, confrontare e soppesare i meriti di piani, proposte, domande, linee d’azione»: purtroppo a farne le spese e a subirne gli effetti peggiori sono soprattutto i poveri, tenuti costantemente sotto osservazione da burocrati moralisti e invadenti; di più, «in tutti i paesi ricchi ci sono ormai schiere di funzionari la cui mansione primaria è far sentire in colpa i poveri», per non parlare del fatto che la burocrazia favorisce puntualmente certi gruppi privilegiati, spesso su base razziale. Pertanto la discriminazione, lungi dal venire debellata, viene anzi istituzionalizzata e diventa sempre più difficile sfuggire alle maglie del controllo pervasivo e totalitario.

In questi mesi la cosa che più mi ha stupito è stata il silenzio della sinistra, anzi il suo supporto attivo a queste politiche destrorse. Parimenti ho notato come chi si mostrasse contrario al lasciapassare e scettico verso la gestione della pandemia venisse preso per uno di destra. Ora, non sono più “di sinistra” da anni, ma certamente non sono mai stato di destra. Essere preso per fascista solo perché ho alcune idee contingentemente sbandierate da alcuni di destra non è stato piacevole; per fortuna Graeber ci spiega che «ogni soluzione di sinistra “moderata” a qualsivoglia problema sociale… si è invariabilmente rivelata una commistione da incubo tra i peggiori elementi della burocrazia e del capitalismo… come stupirsi, quindi, se ogni volta che c’è una crisi sociale è la destra, e non la sinistra, a fare da valvola di sfogo all’indignazione popolare?». Molti che hanno parlato di “nuovo apartheid” sono stati presi per scemi; eppure lo stesso Graeber ci ricorda che «il passaggio all’apartheid negli anni cinquanta… fu anticipato da un sistema di pass pensato per semplificare le regole preesistenti»…

Graeber ci ha lasciati prematuramente nel settembre del 2020, mentre era in vacanza a Venezia. Non ha fatto in tempo a vedere l’orrido spettacolo fatto di lasciapassare a tempo determinato, di diritti basilari sotto ricatto, di totale burocratizzazione dei rapporti umani. Sua moglie in un articolo ne tratteggia un ricordo che ci fa capire come l’avrebbe presa. Schivando il suo leftism a buon mercato – con tanto di invettive contro Boris Johnson ritenuto responsabile diretto, per il suo atteggiamento iniziale verso la pandemia, della morte del marito, ipotizzata per il cosiddetto “long covid” – leggiamo che in realtà «era dura per David rispettare le regole dell’isolamento, non andare nei caffè, non incontrare i vicini; odiava le mascherine e cercava continuamente di riutilizzare i guanti monouso». Non abbiamo dubbi: sarebbe stato preso per complottista, fascista, negazionista e quant’altro solo per dire cose che pochi hanno ormai il coraggio di dire. E ovviamente sarebbe stato l’unico in Italia al supermercato senza mascherina.

(Pubblicato nel numero 426 di Sicilia Libertaria)

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Marchiati e felici Lo sciame umano (Mark W. Moffett, 2018)

Non sono stato benissimo negli ultimi tempi. Dopo un’estate “spensierata” per via di lavori massacranti, è giunto un triste autunno che recava i presagi di cosa sarebbe successo nei mesi a venire: non c’è stato un singolo giorno di questo inverno in cui non abbia rimuginato su ciò che stava accadendo. Lo ammetto: sono stato letteralmente assillato da una legislazione “d’emergenza” che solo a me pareva schifosamente discriminatoria e ben poco sanitaria. Me ne sono reso definitivamente conto a fine anno in una cena tra amici: per la maggior parte di loro il problema erano i vaccini (mai abbastanza per definizione governativa…), per me il lasciapassare (in quelle stesse ore il governo vietava perfino di prendere l’autobus agli studenti non vaccinati…). A quel punto ho deciso di provare a sensibilizzare qualcuno sulle discriminazioni in atto: col risultato che mi sono fatto il sangue acqua, ho perso qualche “amico” e qualcun altro m’ha preso per deficiente o fuori di senno. Pazienza.

Pertanto ho rifatto mio il motto di Spinoza: non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere. Non potendo fare concretamente molto né contro le leggi né contro le strane idee “democratiche” dei miei amici (figuriamoci contro gli aguzzini dotati di app apposita!), ho provato semplicemente a capirci qualcosa. L’interrogativo è sempre quello: com’è possibile che gli esseri umani si comportino in modi così schifosi? (E per “schifosi” intendo fascisti, razzisti, classisti, discriminatori). Da tempo il miglior modo per rispondere mi pare per via biologica anziché psicologica (gli esperimenti di Milgram e Zimbardo, per quanto affascinanti, hanno più di qualcosa che non va – ne riparleremo prossimamente). Mi sono ritrovato tra le mani per caso Lo sciame umano di tale Mark W. Moffett, un biologo che non conoscevo, e non mi sono fatto scoraggiare dalla mole.

Il libro è lungo e a tratti pesantuccio: Moffett in fondo non è un Diamond o un Dawkins, non ha la loro capacità narrativa, e si perde spesso in lunghe descrizioni etologiche di altre specie animali prima di arrivare al punto. Quando ci arriva, però, è estremamente interessante. «Gli animali vedono le loro società come un insieme particolare di individui: una distinzione del tipo “noi” contro “loro”». Dobbiamo partire da qua, da questo senso di appartenenza animalesco, per capirci qualcosa. Se nelle prime società tribali di cacciatori-raccoglitori era molto semplice capire chi era dei “nostri” perché ci si conosceva tutti personalmente, man mano che le società si stanziavano e si ingrandivano diventava sempre più difficile tenere a mente tutti quelli del proprio gruppo. Moffett rileva che l’essere umano è uno dei pochissimi animali, oltre agli insetti sociali come api e formiche e ai capodogli, a vivere in “società anonime”, ovvero in raggruppamenti in cui non si conoscono gli altri membri della società. Sorse pertanto il problema di “marcare” gli altri…

«Bandiere, canzoni patriottiche e altri espliciti segnali di nazionalità non sono che i più ovvi tra i vari modi con cui la gente indica e recepisce i suoi legami sociali». In realtà secondo Moffett qualsiasi cosa può essere un marcatore: prima di arrivare alle bandiere vi furono le caratteristiche fisiche (compreso il colore della pelle), le acconciature dei capelli, gli abiti, certi ornamenti e così via – per non parlare del più difficilmente falsificabile, la lingua nativa, nonché altri dettagli più sottili come la gestualità o il modo di muoversi. I marcatori furono inizialmente essenziali per la nostra sicurezza: solo che poi sono rimasti e hanno cominciato a mostrare l’altra faccia. «La repulsione nei confronti di qualcuno che ignora importanti norme di comportamento può essere così profonda che, per la stessa infrazione, un deviante appartenente alla società può essere trattato più duramente di un forestiero… viene ostracizzato, stigmatizzato, costretto a cambiare o trattato come straniero». Qualcuno si rivedrà in queste parole…

Il nostro bisogno di marcatori sociali è pure ciò che ha fatto sorgere il razzismo (discriminazione in base a caratteristiche fisiche) e il classismo (simboli utilizzati e ostentati per segnalare la propria posizione nella gerarchia sociale). Al di là di tutto, il vero motore per l’uso dei marcatori è il conformismo, l’innato terrore dell’essere umano di restare dalla parte minoritaria: «dietro lo sviluppo di un marcatore… potrebbe esserci stato l’impulso a ripetere il comportamento degli altri nel gruppo». E quando l’imitazione reciproca non bastò più, si passò alle minacce e alle leggi: «man mano che le società si facevano sufficientemente popolate e diffuse, all’uomo occorreva una garanzia costante dell’attaccamento di tutti al gruppo. Prassi specifiche della società non venivano più copiate a piacere, ma imposte: una persona che si comportava in modo inaccettabile adesso avrebbe scioccato anche i suoi amici».

Il mio lettore avrà già capito dove voglio andare a parare: quell’immane porcata chiamata greenpass non è altro che un marcatore imposto dall’alto per dividere la gente (e dunque governarla meglio), per discriminare una minoranza senza una vera ragione sanitaria (avrei potuto capire tamponi per tutti a prescindere dal vaccino, a limite!), per umiliarla ed escluderla dalla società e sostanzialmente per punirla per la disobbedienza. Mi stupisce che così tanta gente ne sia entusiasta o almeno lo giustifichi: ma poi capisco che è diventato una mera questione identitaria, e allora mi spiego com’è che più i nostri amici si sentono di “sinistra” e più sono a favore dell’orrido qr code (sia mai che sei contrario e rischi di passare per complice della Meloni…). Il lettore di Moffett troverà invece in quel libro tante altre cose interessanti che spiegano anche i conflitti esterni, ovvero la guerra («ogni competizione e ogni conflitto con gli estranei dirotta l’attenzione delle persone dalle competizioni e dai conflitti sia reciproci sia delle loro identità di gruppo»). Ma qua stiamo già parlando dell’argomento del prossimo mese.

(Pubblicato nel numero 424 di Sicilia Libertaria)

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#libri2021 Tutti i libri che ho letto nel 2021

1. La notte dell’oracolo (Paul Auster, 2003)
Uno scrittore newyorchese trentaquattrenne si sta riprendendo da un lungo ricovero. Compra un taccuino in una cartoleria gestita da un cinese, comincia a scrivere una storia claustrofobica, ha scazzi con la moglie, il suo migliore amico si ammala e forse si scopava sua moglie, scrive una sceneggiatura fantascientifica, la moglie è incinta, la cartoleria sparisce, il cinese lo porta a puttane, gli rubano in casa. Alla fine il figlio dell’amico-rivale ormai morto picchia e fa abortire sua moglie.

2. La strada (Cormac McCarthy, 2006)
Un sopravvissuto a una catastrofe globale vaga per le strade assieme a suo figlio. Ogni giorno e ogni notte devono stare attenti a non farsi ammazzare dagli altri pochi superstiti diventati cannibali per fame: mangiano lattine di cibo spesso avariato trovate qua e là, passano lunghi giorni senza mangiare, dormono al freddo e al gelo, rischiano la vita continuamente. Talvolta trovano cibo, talaltra affrontano ladri e assassini. Alla fine arrivano al mare (grigio per la cenere) ma il padre muore.

3. Sposarsi 1 (August Strindberg, 1884)
Uno scrittore svedese dell’ottocento darwinista, femminista (per i tempi, e a modo suo) e un po’ misogino (per via della moglie) scrive una dozzina di racconti sullo sposarsi, in cui ogni matrimonio va a finire male se non vengono seguite le direttive della natura – l’uomo a lavorare, la donna a casa a badare ai figli. Se la prende con la cultura, la scuola, la società classista e con Ibsen per Casa di bambola. Alla fine viene processato per blasfemia perché scrive che l’eucarestia è una farsa.

4. Il cigno nero (Nassim Nicholas Taleb, 2007)
Un filosofo e trader libanese si rende conto che nella modernità ci sono un sacco di eventi imprevedibili – come la guerra civile in Libano che l’ha fatto scappare negli Stati Uniti – che contraddicono la mediocrità della curva gaussiana, e li chiama “cigni neri”. Mette in evidenza le nostre fallacie, cecità e bias e sputtana gli economisti, gli statistici, i suoi colleghi della finanza e pure i filosofi tranne Popper. Alla fine l’incertezza dello scrivere gli dà la certezza del pane quotidiano.

5. Il diritto all’ozio (Paul Lafargue, 1883)
Un socialista francese che ha sposato la figlia di Marx si rende conto con orrore che gli operai hanno cominciato ad amare e reclamare il lavoro. Se la prende con la morale capitalistica che ha pervertito perfino i proletari ed esorta i lavoratori a non competere con le macchine ché tanto è una guerra persa. Sogna una giornata lavorativa di tre ore per tutti e fa l’elogio dell’ozio rimpiangendo i bei tempi dei Greci. Alla fine si ammazza assieme alla moglie prima di arrivare ai settant’anni.

6. La morte del padre (Karl Ove Knausgård, 2009)
Un aspirante scrittore norvegese trentanovenne col mito di Proust è frustrato dalla sua misera vita e sopraffatto dai tre figli piccoli. Comincia a rievocare la sua infanzia e l’adolescenza sfigata tra capodanni con birra a fiumi, suonate scoglionate e rapporti glaciali con suo padre. Poi ripercorre la vicenda misteriosa della morte del padre alcolizzato, depresso e accumulatore compulsivo di immondizia. Alla fine scrive prolissamente e dettagliatamente di tutto ciò e diventa finalmente famoso.

7. Mea culpa (Louis-Ferdinand Céline, 1936)
Uno scrittore francese un po’ controverso va in URSS per ritirare i soldi dei diritti d’autore. Si rende conto che il comunismo non è quell’utopia che dice di essere. Se la prende con la borghesia tirannica; con le macchine, che non hanno mai liberato nessun poveraccio; con padroni e operai, due facce della stessa medaglia; con polizia, politici, proletari e con l’umanità intera, merdosa e avida. Alla fine la sua memoria viene dannata in Russia per anticomunismo, in Europa per antisemitismo.

8. Perché scrivere (Zadie Smith, 2011)
Una scrittrice londinese che a venticinque anni ha pubblicato un bestseller viene invitata a tenere una conferenza in Italia per parlare dei motivi per scrivere. Dice che scrivere è assurdo e ridicolo, che lo scrittore è pieno di dubbi e comunque è un egoista in cerca di fama (ma questa la prende da Orwell). Auspica bellezza e cura nella scrittura come fosse artigianato. Alla fine avverte l’aspirante scrittore dell’eventualità tragicomica di non vendere una sola copia nonostante la bravura.

9. Come ordinare una biblioteca (Roberto Calasso, 2020)
Uno scrittore ed editore italiano si chiede quale sia il modo migliore per ordinare i libri nella libreria, che lui chiama modestamente “biblioteca”. Caldeggia la regola del buon vicino e mette accanto libri di autori che in vita si sarebbero scannati. Poi ci informa che tiene i libri avvolti nella carta velina, per celarli alla vista dei visitatori indiscreti; e che possiede volumi più unici che rari; e che scrive a penna stilografica. Alla fine si autopubblica nella sua stessa casa editrice.

10. Rischiare grosso (Nassim Nicholas Taleb, 2017)
Un filosofo e matematico americano di origine libanese scrive il suo ultimo volume sulla saga dell’incertezza. Esalta il rischio e se la prende con gli stupidi che non vogliono rischiare, con gli intellettuali che sono stupidi, con tutti gli psicologi comportamentali, coi politici, coi musulmani non sciiti, con gli accademici, coi ristoratori stellati e con tanti altri. Sostiene il primato dell’azione sul pensiero pseudorazionale; alla fine svela di essere cristiano e si rivela pure trumpiano.

11. Il fantasma esce di scena (Philip Roth, 2007)
Uno scrittore ebreo americano settantunenne torna a New York dopo undici anni di vita isolato in campagna per un intervento contro l’incontinenza. Prima incontra la vecchia amante del suo maestro di scrittura; poi s’imbatte in una coppia di scrittori con cui vuole fare scambio di casa ma si innamora perdutamente della giovane scrittrice (senza neanche poterla scopare); infine viene perseguitato da un aspirante biografo del suddetto maestro. Alla fine manda tutti a fanculo e torna in campagna.

12. Numero zero (Umberto Eco, 2015)
Uno scrittorucolo fallito italiano cinquantenne viene assunto nella redazione di un giornale che non verrà mai pubblicato, ed è l’unico a saperlo. Il suo capo vuole che al contempo gli scriva un libro su quello che stanno combinando. Passa le sue giornate in riunioni coi colleghi: s’innamora della giovane collega autistica e si sorbisce il collega complottista che sostiene che Mussolini non è stato ucciso. Alla fine ammazzano questo collega e lui scappa da Milano con la collega ora fidanzata.

13. Sposarsi 2 (August Strindberg, 1886)
Uno scrittore svedese dell’ottocento processato per una raccolta di racconti ritenuta blasfema vince la causa ma comincia a essere in crisi con la moglie. Così scrive altri diciotto racconti in cui la donna è sempre causa dei mali del marito, o perché del tutto priva di empatia o perché la società le accorda una posizione di supremazia economica nel matrimonio. Per sembrare più moderno ci mette dentro anche un racconto in cui non condanna del tutto l’omosessualità. Alla fine la moglie lo lascia.

14. Psicopolitica (Byung-chul Han, 2014)
Un filosofo coreano ma ormai tedesco si rende conto che il marxismo è superato perché al giorno d’oggi servo e padrone sono la stessa cosa, anzi la stessa persona. Impreca contro il neoliberalismo che ci ha resi schiavi di noi stessi, contro i social media e gli smartphone che ci controllano, contro i politici che ci rendono docili e dipendenti. Ci mette in guardia dai like e dai clic che in cambio di effimero piacere ci fanno perdere la libertà. Alla fine fa l’elogio del filosofo come idiota.

15. Un uomo innamorato (Karl Ove Knausgård, 2009)
Uno scrittore norvegese quarantenne divenuto famoso con un libro in cui si autosputtana ci prende gusto e scrive un altro volume di minuziose memorie. Rimembra fin troppo dettagliatamente di quando lascia la moglie e si trasferisce in Svezia: lì s’innamora di una poetessa psicolabile che dapprima non lo ricambia, per cui da ubriaco si tagliuzza la faccia per farsi notare, ma poi ricambia e ci fa tre figli, esaurendosi per trovare il tempo per scrivere. Alla fine scrive cinque pagine ogni giorno.

16. L’integrazione (Luciano Bianciardi, 1960)
Un trentenne toscano di provincia si trasferisce a Milano, dove viene assunto in una casa editrice nascente. Ogni giorno al lavoro deve sorbirsi riunioni per tirare fuori idee e per decidere come mettere le virgolette; in città deve destreggiarsi tra il poco spazio riservato ai pedoni, i tram assassini e la folla che spinge; nel frattempo nei fine settimana si scopa una tipa romana, ma viene licenziato. Alla fine per integrarsi trova lavoro in un altro editore e si sposa con una tizia anonima.

17. Antifragile (Nassim Nicholas Taleb, 2012)
Un filosofo e statistico libanese ormai americano (ma lui preferisce “levantino”) si rende conto che non c’è una parola che indica il contrario di fragile, così la inventa lui e ci scrive un libro intero. Se la prende con gli interventisti di ogni tipo, dai politici agli accademici ai medici, e coi fragilisti; elogia tutto ciò che non ci distrugge perché ci rafforza e impreca contro i radical chic. Alla fine dà consigli su come e cosa mangiare – carne (tanta), vino rosso e digiuno ogni tanto.

18. Mussolini ha fatto anche cose buone (Francesco Filippi, 2019)
Uno storico italiano quarantenne si chiede se Mussolini abbia fatto cose buone, dato che ne sente tanto parlare in giro. Parte dalle cose più risapute tipo le bonifiche e le pensioni, e va a cercarsi le leggi dell’epoca per accorgersi che erano iniziative precedenti a Mussolini che anzi le trasformò in sistemi clientelari. Continua con la storia del duce condottiero e femminista ma scopre che era solo un femminaro mascelluto. Alla fine scrive un libro che viene comprato da nostalgici analfabeti.

19. Nelle tempeste d’acciaio (Ernst Jünger, 1920)
Un tedesco diciannovenne si arruola volontario per la prima guerra mondiale. Dopo pochi mesi viene ferito e ne approfitta per fare un corso per diventare tenente. Torna in trincea, vede i suoi compagni morire come mosche, incontra suo fratello combinato male, viene ferito nuovamente, si riprende, vince una croce di ferro, torna al fronte, vede morire inglesi ma anche tedeschi e talvolta ammazza anche lui, finché non viene ferito ancor più gravemente. Alla fine si becca la massima onorificenza.

20. Trattato del ribelle (Ernst Jünger, 1951)
Un filosofo tedesco di mezza età…

21. Quando la casa brucia (Giorgio Agamben, 2020)

22. Teoria della canzone (Manlio Sgalambro, 1997)

23. Contro la musica (Manlio Sgalambro, 1994)

24. A colpi d’ascia (Thomas Bernhard, 1984)
Uno scrittore viennese cinquantenne viene invitato a una cena artistica da ex amici che non vede da vent’anni…

25. Inferno (August Strindberg, 1897)

26. Giocati dal caso (Nassim Nicholas Taleb, 2001)

27. Il letto di Procuste (Nassim Nicholas Taleb, 2010)

28. Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci (Oriana Fallaci, 2004)

29. Principianti (Raymond Carver, 2009)

30. Non morire (Anne Boyer, 2019)
Una poetessa americana quarantenne scopre di avere un tumore al seno…

31. Il silenzio (Don DeLillo, 2020)
Una coppia di turisti americani…

32. Nemesi (Philip Roth, 2010)

33. Il grande libro della scrittura (Marco Franzoso, 2020)
Uno scrittore italiano semisconosciuto intuisce che anziché scrivere libri è meglio insegnare a scrivere libri, e lo fa scrivendo un libro. Parla dei tre atti, di taccuini, di narratori e delle solite cose; cita Proust ma ancor più Modiano; incita a scrivere e riscrivere cambiando tempi verbali per vedere l’effetto che fa. Ci rifila pure la storia di suo figlio quasi morto per colpa della sua ex fricchettona. Alla fine dà i suoi consigli uno per pagina, così riesce a riempire settecento pagine.

34. L’isola dell’infanzia (Karl Ove Knausgård, 2009)
Uno scrittore norvegese quarantenne rievoca l’infanzia e gli anni delle scuole elementari. Ricorda tutti i pianti che s’è fatto, buona parte a causa del padre-padrone – ma a volte ci si mette anche la madre che lo manda in piscina con una cuffia da femmina. Rimembra i compiti, i giornaletti porno, le prime fidanzatine e i bulletti che lo tormentano. Ricostruisce dettagliatamente le minchiate che faceva e il timore costante della punizione paterna. Alla fine odia ancora ferocemente il padre.

35. Diario di un fallito (Ėduard Limonov, 1982)
Un aspirante scrittore russo trentacinquenne va a stare a New York. Mena vita grama, sopravvive col sussidio statale, passa vari giorni senza mangiare; scopa con chi gli capita, maschi o femmine, ma soprattutto con la governante di un miliardario alla quale può spillare qualche soldo o un pranzo. Sogna rivoluzioni, omicidi, fama e gloria; gira con un coltello in tasca e gli manca il corpo della sua bellissima ex moglie. Alla fine la governante lo lascia e lui diventa il maggiordomo del riccone.

36. Vite che non sono la mia (Emmanuel Carrère, 2009)
Uno scrittore francese non ancora cinquantenne si trova in vacanza nello Sri Lanka mentre viene colpito dallo tsunami. Aiuta una coppia a cui è morta la figlia di quattro anni; nel frattempo la sorella della sua compagna si (ri)ammala di cancro. Dopo pochi mesi al funerale della cognata conosce un giudice collega di lei che lo riconosce e gli dice che dovrebbe scriverne un libro. Lo incontra spesso e si fa raccontare varie storielle di tribunali e tumori. Alla fine dopo tre anni ne fa un libro.

37. Le certezze del dubbio (Goliarda Sapienza, 1987)
Una scrittrice catanese cinquantaseienne appena uscita dal carcere di Rebibbia incontra una giovane ex compagna di cella al tribunale. Fa finta di non vederla ma poi la saluta e si promettono di rivedersi. Cominciano a frequentarsi, vanno in giro assieme, hanno un rapporto madre-figlia a tratti incestuoso, passano folli serate al femminile tra ex detenute, bevono whisky in ogni bar, incontrano compagni brigatisti. Alla fine la giovane amica drogata si fidanza e va a finire di nuovo in carcere.

38. Lo sciame umano (Mark W. Moffett, 2018)

39. L’umiliazione (Philip Roth, 2009)
Un attore americano sessantacinquenne non riesce più a recitare: viene lasciato dalla moglie e si fa ricoverare in una clinica psichiatrica. Un giorno una quarantenne lesbica figlia di amici va a trovarlo a casa e scopano assieme. La tizia forse smette di essere lesbica, si mette con lui, si fa comprare abiti costosissimi, acquisisce femminilità, fanno una cosa a tre; intanto l’ex amante di lei li perseguita entrambi. Alla fine la tizia lo lascia per una ragazza e lui si ammazza in soffitta.

40. Manuale di autodistruzione (Marian Donner, 2019)
Una giornalista olandese quarantenne che lavora come centralinista per escort odia la vita borghese, i manuali di autoaiuto e il miglioramento personale ed è convinta che viviamo in una dittatura del positivo in cui tutti dobbiamo apparire smaglianti, in realtà solo per accettare meglio la sottomissione al sistema. Reclama il diritto a bere, puzzare e ballare e accumula brutte figure con gli amici ma per fortuna l’indomani dimentica tutto. Alla fine fa un figlio e smette di passare notti brave.

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